La privatizzazione (dopo 71 anni) dell’ente pubblico “Vittoriale degli italiani”.

di | 11 Dicembre 2008 | 5 commenti Leggi

Mentre in Italia, per effetto della crisi economica internazionale, il numero delle ore di cassa integrazione aumenta in modo esponenziale e, nel contempo – in modo apparentemente schizofrenico – aumenta in modo altrettanto esponenziale il numero degli skipass delle stazioni sciistiche venduti nell’ultimo ponte dell’Immacolata, mi è capitato di leggere il parere espresso dal Consiglio di Stato, Sez. Consultiva per gli Atti Normativi, in data 10 novembre 2008 avente ad oggetto lo “schema di decreto del Presidente della Repubblica recante “Privatizzazione dell’ente “Vittoriale degli italiani” (per consultare il suo testo, clicca qui).

Leggendo il parere in questione si apprende che oltre 70 anni addietro (e precisamente con r.d.l. 17 luglio 1937, n. 1447) fu istituita la Fondazione di diritto pubblico “Il Vittoriale degli Italiani”, che ha sede in Gardone Riviera (BS), con lo scopo di promuovere e diffondere, in Italia e all’estero, la conoscenza del complesso monumentale (dichiarato monumento nazionale con r.d. 28 maggio 1925, n.1050) che fu dimora del poeta Gabriele D’Annunzio, nonché di amministrare e curare le opere d’arte in esso custodite.

Il parere non precisa l’ammontare dei contributi che ha drenato l’ente di diritto pubblico in questione nel corso degli anni.

Si apprende tuttavia dal parere del Consiglio di Stato che, dopo oltre 70 anni di onorata attività e di relativi pompaggi di denaro pubblico, non si è ritenuto di sciogliere la fondazione, affidando magari le funzioni a qualche organismo pubblico (come ad es. la locale Soprintendenza), ma si è ritenuto opportuno trasformarla in fondazione di diritto privato.

In Italia, del resto, nel campo del diritto pubblico – in conformità al motto dei filosofi “pluralisti” (Empedocle, Anassagora e Democrito) – nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.

Leggendo il parere risulta che, a seguito della privatizzazione, oltre il presidente, verrà nominato anche “un direttore generale che esercita specifiche funzioni in materia di organizzazione e gestione delle risorse umane ed economiche” e che lo Statuto dovrà “prevedere la presenza nell’organo di amministrazione e di controllo di rappresentanti dell’amministrazione statale, nonché quella degli enti locali in quanto parti attive nella programmazione delle iniziative culturali della Fondazione”.

L’art. 4 dello schema del regolamento (destinato al personale della Fondazione), prevede la riconferma di tutti i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, così come concordato a seguito di incontri tenutisi tra la Fondazione e le organizzazioni sindacali (R.S.U. e rappresentanti di FP di CGIL e CISL), senza neanche un’ora di cassa integrazione e senza prepensionamenti.

Per quanto riguarda l’applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro al personale a tempo indeterminato, lo stesso art. 4 prevede, in via temporanea, e cioè fino all’approvazione dello statuto, il prolungamento della vigenza di quello attuale in vista della successiva applicazione di un contratto collettivo di diritto privato del pertinente comparto (non si indica tuttavia quale sia questo comparto).

L’unica consolazione è che, così come previsto dall’art. 1 dello schema di regolamento, la Fondazione “Vittoriale degli Italiani” verrà esclusa dalla tabella degli istituti ammessi a contributo dello Stato, emanata con d.m. 12 maggio 2006. Ciò in ragione di quanto previsto dall’articolo 2, comma 634, lettera f) della legge n. 244 del 2007, che stabilisce l’abrogazione delle disposizioni legislative che prescrivono il finanziamento, diretto o indiretto, a carico del bilancio dello Stato degli enti trasformati in soggetti di diritto privato.

Non sono ben chiare le risorse mediante le quali la Fondazione pagherà i compensi al Presidente, al Direttore generale (chissà perchè i direttori in Italia sono sempre chiamati direttori generali, piuttosto che direttori e basta) ed al personale, che, come già detto, rimane immutato, nonchè ai componenti degli organi direttivi e di controllo. Non è da escludere l’adozione di qualche bella legge-provvedimento a breve termine.

La “ciliegina sulla torta” la pone tuttavia il Consiglio di Stato, il quale, in chiusura di parere, prescrive di sostituire nella clausola finale le parole “munito del sigillo di Stato” con le altre: “munito del sigillo dello Stato”; e ciò, precisa puntigliosamente il Consiglio di Stato, “in conformità a quanto previsto dall’art. 3, comma 2, del d.P.R. 28 dicembre 1985, n. 1092, recante approvazione del T.U. delle disposizioni sulla promulgazione delle leggi, sull’emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana”.

In sostanza, secondo Palazzo Spada, quando ci si riferisce al sigillo, si deve scrivere “dello Stato” piuttosto che “di Stato”.

Rimane il dubbio se quello nostro, anche alla luce della piccola vicenda fin qui esposta, possa considerarsi uno Stato serio.

Giovanni Virga, 11 dicembre 2008.

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Category: Amministrazione pubblica

Commenti (5)

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  1. Pietro De Luca ha detto:

    Rimane il dubbio se il nostro possa considerarsi uno Stato

  2. Antonino Casesa, Agrigento ha detto:

    come sempre puntuale e chiaro nelle sue espressioni giuridiche e linguistiche.
    Auguri di un buon natale naturalmente dello Stato Italiano

  3. Massimo GRISANTI ha detto:

    Mi sembra di vivere gli anni precedenti la Rivoluzione Francese, con tutta una schiera di parrucconi che non mettono il naso fuori dai loro palazzi e stanno lì ad autoreferenziarsi.
    Stiano attenti al seguito …

  4. Giovanni Virga ha detto:

    Ringrazio tutti coloro che sono finora intervenuti, ricambiando gli auguri.

    Aggiungo solo a quanto già scritto che in una relazione di oltre 20 anni addietro dedicata al giudizio di ottemperanza (pubblicata in questa rivista), il Pres. Giacchetti aveva preso amabilmente in giro la dottrina per il fatto che si era impantanata in una lunga diatriba circa la denominazione esatta da attribuire al commissario nominato in sede di ottemperanza (e cioè se esso dovesse essere chiamato “ad actus” ovvero “ad acta“), osservando che in tal modo “il dibattito dottrinario e giurisprudenziale sul giudizio di ottemperanza si stava pericolosamente avviando verso gli iperborei dell’architettura giuridica astratta” e che si trattava di “questioni prive di utilità pratica ai fini del rendere giustizia e di cui – diciamoci la verità – al cittadino non importava assolutamente nulla” (v. il punto 9 e la nota n. 46 della relazione).

    Il Consiglio di Stato, con la precisazione circa la denominazione del sigillo di Stato (rectius: dello Stato) contenuta nel parere in rassegna, forse non voleva essere superato dalla dottrina.

    G.V.

  5. Armando Argano ha detto:

    Non si finisce mai di disimparare….
    Grazie per l’insegnamento

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