La portata del principio delle pari opportunità nell’accesso alle cariche pubbliche

di | 5 Agosto 2011 | 6 commenti Leggi

Confesso subito di provare un certo fastidio nell’affrontare l’argomento oggetto delle seguenti note, dedicate al principio denominato pomposamente come “delle pari opportunità nell’accesso alle cariche pubbliche” (o, più inelegantemente, ma in maniera forse maggiormente efficace, come quello delle “quote rosa”).

Il fastidio deriva non già dal fatto che sono un inguaribile vetero-maschilista, anche se, ne sono certo, sarò tacciato di essere tale dopo questo intervento, solo per avere sostenuto tesi diverse da quelle della corrente maggioritaria; mi aspetto anche questa ulteriore scomunica, in aggiunta a quelle già impartite in precedenza dall’establishment. E’ questo, del resto, il prezzo che solitamente nel nostro Paese bisogna pagare per potere esprimere liberamente le proprie idee, in contrasto con quelle in voga.

Il fastidio nel trattare l’argomento deriva invece da tre considerazioni:

1) la prima, di carattere generale anche se contingente, deriva dal difficile momento che il nostro Paese sta attraversando sotto il profilo economico. Occuparsi della questione delle “quote rosa” in questo momento, a fronte dei giganteschi problemi che gli italiani debbono affrontare, sembra francamente fatuo; i passeggeri del Titanic (evocato qualche settimana addietro dal nostro Ministro Tremonti) almeno attendevano l’affondamento allietati dalle note di un violino, e non certo discutendo delle “quote rosa”;

2) la seconda riguarda la mia personale contrarietà a prevedere delle riserve o delle quote in ragioni del sesso, quasi che il c.d. “sesso debole” (che ormai tanto debole non è: v. ad es., nel campo giornalistico, le varie Lilli Gruber e Luisella Costamagna) sia, per una sua condizione specifica, handicappato o soggetto ad un regime speciale di tutela. Credo anzi che, sotto questo profilo, le “femministe” più accanite dovrebbero ribellarsi per la implicita ammissione di debolezza che comporta la riserva in questione, che evoca indirettamente quelle destinate ad esigue comunità bisognose di protezione e speciale tutela.

Quote riservate nei concorsi e, in generale, per l’accesso ai pubblici uffici, vanno infatti limitate ai soggetti portatori di handicap fisici, i quali sarebbero altrimenti inevitabilmente scartati. Prevedere delle quote di riserva anche per le donne, vale a dire che le stesse sono dei soggetti handicappati, il che, come già detto, non è (almeno nel 21° secolo).

La riserva, del resto, come tutte le riserve, comporta una ingiustificata deroga al principio generale del merito (ed a quello connesso secondo cui l’accesso ai pubblici uffici va garantito ai capaci e meritevoli, indipendentemente da ragioni di sesso, razza, religione, ecc.). Solo ragioni prevalenti – come quella appena ricordata degli handicap fisici – possono giustificare delle deroghe al principio generale.

Rimane inoltre un dubbio circa la meritevolezza della riserva, anche confrontando la situazione delle donne con altre categorie svantaggiate (come ad es. i giovani), ammesso per un attimo che oggigiorno essere donna significa appartenere ad una categoria svantaggiata.

Qualcuno a questo punto obietterà: ma in Italia, che quasi sempre sotto la spinta di emozioni piuttosto che di ragionamenti, vuole dimostrarsi moderna ed avanzata (salvo poi scoprirsi irrimediabilmente arretrata per ciò che concerne vari settori pubblici, come ad es. quello della giustizia), è ormai prevista un norma addirittura di rango costituzionale (l’art. 51, 1° comma, Cost., novellato della legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1) con la quale si è prescritto che, al fine di consentire ai cittadini di entrambi i sessi di «accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge», «la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini». Occorre tuttavia chiedersi quale sia l’esatta portata di questa norma introdotta, ripeto, sulla spinta più delle emozioni che di un ragionamento, nello stesso modo in cui, poco dopo tangentopoli, fu ridotta l’immunità parlamentare prevista dai nostri saggi padri costituenti.

3) Altro motivo di fastidio deriva dal constatare che la più recente giurisprudenza (v. negli ultimi tempi le sentenze del TAR Lazio del 24 luglio 2011 e del TAR Sardegna del 2 agosto 2011, che hanno azzerato rispettivamente la giunta municipale di Roma e la giunta regionale della Sardegna) si è gettata a capofitto sull’argomento, forzando principi (sia di ordine processuale che di ordine sostanziale) pur di affermare, in maniera gloriosamente moderna, che le donne hanno la loro brava riserva in materia di accesso ai pubblici uffici.

Tutto questo senza curarsi degli effetti che comportavano le loro pronunce, che hanno azzerato intere giunte, in un momento come l’attuale nel quale – anche in considerazione della grave instabilità economica – è necessaria almeno una certa stabilità negli organi amministrativi.

E questo anche a prescindere dagli effetti ultimi che comporteranno le pronunce: si è infatti sicuri che l’ingresso di rappresentati del sesso c.d. debole nelle giunte comporterà un miglioramento delle nostre istituzioni? La risposta a tale quesito, se si fa riferimento ad alcuni noti ministri dell’attuale compagine governativa (come ad es. la Carfagna, che sino a qualche anno addietro si occupava di calendari “artistici” e di concorsi per Miss Italia o la Gemimi, che ha conseguito il titolo di avvocato presentandosi in Calabria, ad oltre mille chilometri dal suo comune di residenza), non è così scontata. Qualcuno però dirà: dura lex, sed lex. Ma di quale legge stiamo parlando?

Storicamente il principio delle pari opportunità delle donne rispetto agli uomini è risalente nel tempo ed è anteriore alla già citata novella costituzionale.

Uno dei primi tentativi per la sua affermazione fu fatto con l’art. 9 del d.P.R. 9 maggio 1994 n. 487, il quale prescriveva che almeno un terzo dei posti nella composizione delle commissioni di concorso deve essere riservato alle donne, salva motivata impossibilità.

E’ stato merito della giurisprudenza del Consiglio di Stato circoscrivere la portata di tale norma, essendo stato affermato che essa “costituisce una deroga di carattere eccezionale” e “non attribuisce in via autonoma un interesse alle candidate donne a far valere ex se la sua non osservanza da parte della P.A.; a meno che tale inosservanza non sia assumibile come un sintomo, da valutare in un più ampio contesto, che evidenzi un comportamento dell’Amministrazione globalmente inteso ad attuare illegittime pratiche discriminatorie ai danni delle concorrenti” (v. per tutte Cons. Stato, Sez. V, sent. 6 giugno 2002 n. 3184, in questa rivista).

Lo stesso Consiglio di Stato, peraltro, ha sollevato q.l.c. della norma (v. ord. della Sez. V, 13 gennaio 2004 n. 50, in questa rivista, che è stata tuttavia dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale, con ordinanza 27 gennaio 2005 n. 39, pubblicata sempre in questa rivista).

La vera disciplina generale è comunque stata introdotta con il d.l.vo 11 aprile 2006, n. 198 (in G.U. n. 125 del 31 maggio 2006 – Suppl. Ord. n. 133), contenente il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246.

Tale disciplina generale, emanata in attuazione dell’art. 51 Cost., prevede ancora una normativa di carattere programmatico e non immediatamente applicabile (fuorchè la previsione dell’immancabile Commissione per le pari opportunità e di un Comitato per l’imprenditoria femminile istituiti per distribuire un po’ di posti di sottogoverno e di gettoni di presenza, nonchè la previsioni di ovvi divieti di discriminazione economica e sociale che esistevano già in forza dell’art. 3 Cost.).

La disciplina generale prevede inoltre, con una norma speciale (art. 36), una deroga agli ordinari criteri che disciplinano la legittimazione attiva nei giudizi, stabilendo in particolare che “ … le consigliere o i consiglieri di parità provinciali e regionali competenti per territorio hanno facoltà di ricorrere innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro o, per i rapporti sottoposti alla sua giurisdizione, al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti, su delega della persona che vi ha interesse, ovvero di intervenire nei giudizi promossi dalla medesima”. Si tratta, è bene dirsi fin d’ora, di una regola di carattere eccezionale, che finisce per confermare indirettamente, per il resto, le ordinarie regole applicabili in materia.

Occorre a questo punto – non potendomi dedicare, per motivi di tempo, all’illustrazione dei vari provvedimenti che, specie negli ultimi tempi, hanno cercato di attuare il principio – chiedersi se siano condivisibili o meno le recenti pronunce che hanno avallato incondizionatamente il principio delle pari opportunità, bypassando – come già detto – sia regole processuali che regole sostanziali. Mi riferisco in particolare alle già citate sentenze del T.A.R. Lazio – Roma e del T.A.R. Sardegna, pubblicate in questa rivista.

Entrambe le sentenze, innanzitutto, hanno affermato vari principi in tema di legittimazione attiva in materia.

In particolare, secondo il T.A.R. Lazio, si dovrebbe riconoscere, ai fini dell’impugnazione della delibera di nomina della Giunta municipale lesiva del principio in discorso, la legittimazione attiva di tutti i consiglieri comunali.

Tale principio contrasta vivamente con quello più volte affermato dal Consiglio di Stato, secondo cui la legittimazione attiva dei consiglieri comunali non può riconoscersi ai fini della tutela del generico interesse alla legittimità dell’azione amministrativa dell’Ente locale, ma solo allorché l’atto impugnato leda uno specifico “munus” attribuito dalle legge al consigliere comunale; e questo non mi sembra sia il caso della delibera di nomina dei componenti della G.M., atteso che, a tacer d’altro, di essa possono far parte comuni cittadini.

Secondo la stessa sentenza del T.A.R. Lazio, inoltre, non occorrerebbe che l’impugnativa sia proposta da rappresentanti del sesso femminile; tale principio, tuttavia contrasta con quello, costantemente affermato, secondo cui l’interesse che legittima l’azione nel processo amministrativo deve essere personale e diretto. E tale certamente non è quello dei ricorrenti maschi che lamentano la sottorappresentazione del sesso femminile. Giustamente quindi altre pronunce hanno ritenuto inammissibili ricorsi proposti da rappresentanti del sesso maschile e, allorché il ricorso è stato proposto da una singola donna, correttamente l’accoglimento è stato limitato solo ad un posto, nei limiti dell’interesse dell’aspirante.

La sentenza del T.A.R. Sardegna ha invece ritenuto sussistente la legittimazione nel caso di ricorso proposto da una associazione, sol perchè essa, secondo lo statuto, è destinata ad operare per “…l’affermazione delle pari opportunità tra donne e uomini e per le realizzazione delle relative azioni positive…”; ma non ci si accorge che, in tal modo, si dà la stura ad una specie di azione popolare, atteso che basta inventarsi una associazione per essere di per sè legittimati ad impugnare un qualsiasi atto asseritamente lesivo del principio di pari opportunità.

Se l’art. 36 del già citato Codice delle pari opportunità riconosce in via eccezionale una speciale legittimazione delle “… consigliere o (de)i consiglieri di parità provinciali e regionali competenti per territorio”, non è poi possibile estendere tale legittimazione a qualsiasi associazione costituita “ad hoc”.

Ma i profili che suscitano maggiore perplessità sono quelli sostanziali.

L’art. 51, 1° comma, Cost. novellato, si è detto (v. in particolare la sentenza del T.A.R. Sardegna; ma v. anche in precedenza la sentenza del T.A.R. Campania, Sez. I, 10 marzo 2011, n. 1427, pubblicata in questa rivista) non costituirebbe una norma solo programmatica, ma immediatamente precettiva, che si applicherebbe anche in mancanza di una disciplina di recepimento.

Anzi, si è aggiunto, il rapporto tra l’art. 51, 1° comma, e l’art. 3 Cost., sarebbe di “continenza”, nel senso che il principio di pari opportunità costituirebbe specificazione ed attuazione del principio di eguaglianza. Più precisamente è stato affermato che “l’accesso in condizioni di eguaglianza ai pubblici uffici ed a cariche elettive, a prescindere dal sesso di appartenenza, costituisce specificazione del più generale principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, nel senso che la lettura combinata delle due norme costituzionali impone di rimuovere ogni ingiustificata distinzione o disparità di trattamento determinata da ragioni di sesso”.

Qui ci spingiamo addirittura sul piano del ribaltamento della realtà.

Andiamo con ordine:

1) che l’art. 51, 1° comma, Cost. sia una norma programmatica e non immediatamente applicabile non lo dico solo io, ma è quanto risulta dalla lettera della novella costituzionale, la quale così si esprime: «la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini».

Se il testo della novella fa riferimento ad “appositi provvedimenti” per l’applicazione del principio, è evidente che in mancanza di apposti provvedimenti legislativi di carattere attuativo il principio non può trovare concreta applicazione. Onde è erronea l’affermazione della sentenza del T.A.R. Sardegna secondo cui il principio trova applicazione anche in mancanza di apposita disciplina legislativa (nella specie inesistente nella Regione Sardegna per ciò che concerne la composizione della Giunta regionale).

2) Non è affatto vero che il rapporto tra art. 51 e art. 3 della Cost., almeno nei termini in cui si vuole applicare il primo (prevedendo, cioè, una specie di riserva in favore del sesso debole) è di continenza, ma è semmai di eccezione rispetto alla regola.

La regola, infatti, è quella contenuta nell’art. 3, 1° comma, Cost. (secondo cui “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso ….”) mentre il principio di cui all’art. 51, 1° comma, Cost. (almeno, ripeto, nei termini nei quali si intende il principio di pari opportunità e cioè prevedendo in ogni caso, a prescindere da apposite norme attuative, una riserva di posti nei pubblici uffici in favore dei rappresentanti femminili), è, semmai, l’eccezione, dato che finisce per prevedere una differenziazione per ragioni di sesso.

Il problema dei problemi, il nocciolo della questione, è comunque determinare che cosa si debba intendere per pari opportunità.

A mio sommesso avviso, tale principio comporta solo una serie di limiti negativi e non (in positivo) addirittura una riserva che finirebbe per discriminare il sesso maschile e porsi in rotta di collisione con il già menzionato art. 3 Cost. (che, ribadisco, impedisce una discriminazione o, comunque, una riserva per ragioni di sesso).

Solo a questa condizione il rapporto tra art. 51 e art. 3 può essere considerato come un rapporto di continenza, che finisce per non porre la prima norma in rotta di collisione con la seconda.

Il che significa che possono censurarsi ed essere eventualmente essere annullati in sede giurisdizionale tutti quegli atti amministrativi che dichiaratamente negano la nomina a pubblici uffici in ragione del sesso, ma non quelli che procedono alla nomina in violazione di pretese “quote rosa” (che, in mancanza di apposita disciplina, non esistono e che, comunque, se previste, suscitano molti dubbi circa la loro legittimità costituzionale).

Giovanni Virga, 5 agosto 2011.

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P.S. del 6 agosto 2011: talvolta il caldo fa brutti scherzi. Ma in questo caso non sono sicuro se si tratta di un colpo di caldo o dell’ignoranza delle comuni regole che si applicano non solo agli scritti di dottrina, ma anche alla convivenza civile.

Stasera, sabato 6 agosto, di ritorno da una giornata di riposo, ho trovato tra la posta una email dell’Avv. Scotto, nella qualità di “Direttore responsabile della Casa editrice Edizioni Libra srl”, inviata sempre nella giornata di oggi, con la quale mi si accusa addirittura di avere perpetrato una “grave violazione del diritto d’autore” per il fatto che, nel corso del surriportato articolo, ho citato del tutto incidentalmente un recente scritto del Prof. Ancora, pubblicato nel sito della Casa editrice, riportandone un brevissimo periodo, peraltro tra apposite virgolette.

Non contento di tale accusa, alla quale non mi è stato dato tempo di rispondere, l’Avv. Scotto ha pubblicato, con grande evidenza nella copertina del sito della Libra edizioni, la lettera di diffida.

Non ho alcuna difficoltà a togliere la citazione dello scritto del Prof. Ancora, citazione che costituisce, grazie al link che era nella stessa presente, una indiretta pubblicità al sito in cui è stato pubblicato. Pur nel rispetto del Prof. Ancora (che non so se sia d’accordo con la suddetta casa editrice), non intendo pubblicizzare in alcun modo il sito di una casa editrice che si comporta in questo modo.

Apprendo così che non è possibile citare scritti pubblicati nel sito della società Libra, senza chiedere apposito consenso preventivo (presumo scritto) alla stessa. Solitamente così non avviene per tutte le altre riviste cartacee od elettroniche, compresa LexItalia.it, che viene spesso citata. E’ bene che i lettori ne prendano nota, con tutte le conseguenti ricadute in ordine alla libertà di circolazione delle idee e delle opinioni.

Per il resto, il comportamento di detta casa editrice per le concrete modalità di attuazione (mi riferisco al fatto che, dopo avere inviato la suddetta diffida per email, senza dare il tempo di rispondere, l’ha pubblicata con grande evidenza nel suo sito), si qualifica da solo. Del resto che cosa c’è da aspettarsi da una casa editrice che, già nell’intestazione del suo sito, afferma di essere “leader nella massimazione in Italia … ” e che in tal modo, del pari, si qualifica da sola.

Rimane per ultimo un quesito: perchè l’Avv. Scotto, piuttosto che scrivere lettere di diffida per una semplice citazione, pubblicandole addirittura con grande risalto nel sito, non scrive (se ne è capace) un articolo sull’argomento da me trattato nello scritto “incriminato”, in modo da arricchire il dibattito?

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P.S. n. 2 del 7 agosto 2011: finora non ho ricevuto alcuna risposta per email dalla casa editrice Libra, ma ho visto che nel suo sito hanno riportato la mia email di replica con un commento preliminare (evidenziato in grassetto), nel quale, tra l’altro, si afferma che “per essere puntuali, si direbbe che grazie alla Nota del Prof. Felice Ancora, il predetto intervento (il mio articolo, n.d.r.) pareva aver assunto una certa corposità”; è stato inoltre precisato “a scanso di equivoci, che il Prof. Ancora è perfettamente d’accordo circa la linea adottata dalla Casa editrice”.

Per il resto si lamenta di dovere dare “ancora tanta visibilità, in aggiunta a quella già erogata (nostro malgrado) mediante la segnalazione” del sito della Libra (quasi che io avessi chiesto loro di pubblicare nel sito della Libra subito la loro lettera di diffida, senza attendere una risposta; e quasi che il sito della Libra sia più frequentato di LexItalia.it e quest’ultima rivista sia in cerca di pubblicità, quando, in base alle statstiche pubbliche di ranking, è vero abbondantemente il contrario).

Particolarmente calunniosa e comunque priva di fondamento è l’asserzione (presente in copertina) secondo cui avrei utilizzato materiale in violazione del diritto di autore e l’altra (presente nel commento che precede la mia risposta) secondo cui solo mediante la citazione dello scritto del Prof. Ancora, il mio articolo aveva “assunto una certa corposità”; basta rileggere l’articolo (privo della citazione) per rendersi conto di quanto essa sia infondata. Mi riservo su tali due affermazioni di presentare querela.

Poichè tuttavia mi rendo conto che non è possibile effettuare un raffronto tra le due versioni del mio articolo a molti lettori che non hanno avuto l’occasione, per via del periodo feriale, di leggere la prima stesura dell’articolo, riporto qui di seguito il testo della citazione “incriminata”, in modo da smentire in modo ulteriore la calunniosa affermazione secondo cui solo con essa il mio articolo avrebbe “assunto una certa corposità”. Coloro che non hanno avuto modo di leggere la prima stesura, infatti, potrebbero immaginare chissà che. Riproduco quindi la citazione non già perchè mi sono affezionato ad essa, ma per dimostrare in modo chiaro la calunnosità dell’asserzione della casa editrice Libra.

La citazione era stata inserita nella parte dell’articolo in cui affermavo che “rimane inoltre un dubbio circa la meritevolezza della riserva, anche confrontando la situazione delle donne con altre categorie svantaggiate (come ad es. i giovani)”.

Ed aggiungevo (esattamente questa è la citazione “incriminata”): In questo stesso ordine di idee, mi sembra, si pone un recentissimo scritto del Prof. Ancora (con inserito un link all’articolo) al quale si rinvia anche per ulteriori riferimenti, che in particolare osserva: “Alla base della disciplina sulla parità di genere c’è l’idea che le istituzioni siano più aderenti alla realtà sociale se al loro interno si ha la presenza di una componente importante delle stesse. E’ da verificare se lo stesso ragionamento può essere fatto valere anche per altre importanti componenti della realtà sociale, come gli anziani e i giovanissimi, dal punto di vista sociologico,“terze” rispetto alle categorie sociologiche degli uomini e delle donne (normalmente usate con riferimento agli individui giovani-adulti)”.

Tutto qui? si chiederà qualcuno. Esattamente tutto qui. Quella appena riportata è esattamente la citazione che, a dire della Libra, dava “corposità” al mio articolo e che avrebbe comportato “una grave violazione del diritto di autore”, nonchè il “prelevamento” non autorizzato di materiale protetto. Ci sarebbe da ridere, se le asserzioni non fossero accompagnate da calunnie.

Non si comprende comunque perchè, se non per ragioni pubblicitarie paradossalmente ribaltate, si sia voluto montare “un caso” (con tanto di lettera di diffida pubblicata nella pagina principale del sito della Libra, aprendo il quale chiunque può leggere a caratteri stampatello ed in grassetto la scritta “DIFFIDA AL PROF. GIOVANNI VIRGA”, di guisa che il lettore si chiederà: che cosa ha fatto il Prof. Giovanni Virga di così grave?), per una semplice citazione, comunissima negli scritti di dottrina (mio padre ed io, nei rispettivi libri, ne abbiamo inserite centinaia se non migliaia, talvolta con i ringraziamenti degli AA. citati, senza chiedere preventive autorizzazioni scritte alle case editrici).

Ve la immaginate comunque la trafila da seguire se per una qualsiasi citazione bibliografica si dovesse seguire la procedura pretesa dalla Libra, richiedendo una preventiva autorizzazione scritta a ciascuna casa editrice nonchè all’Autore dell’articolo citato?

Spiace inoltre apprendere che, a dire della Libra, il Prof. Ancora aderisce alla richiesta di eliminazione della citazione. Comprendo bene che il Prof. Ancora non ha bisogno di citazioni di alcuno, ma la richiesta di eliminazione della citazione non previamente autorizzata per iscritto non corrisponde ad una mentalità libera ed aperta, quale dovrebbe essere quella di un rappresentante del mondo accademico, specie se la citazione proviene da un collega universitario.

Mi chiedo e gli chiedo: ma per le citazioni inserite nei Suoi scritti (ivi compresa la nota di commento da me citata, che contiene a sua volta varie altre citazioni) il Prof. Ancora ha mai chiesto ed ottenuto il consenso preventivo scritto dalle varie case editrici ed dagli Autori? Se la risposta è negativa, Egli dovrebbe, per un minimo di coerenza, del pari cancellarle, così come ho fatto prontamente io. O la regola in questione si applica solo “ad personam”, nei confronti dello scrivente? E poichè vedo che egli ha citato anche Autori (come Guicciardi) ormai scomparsi, l’autorizzazione scritta preventiva in questi casi va chiesta forse agli eredi che sono titolari del diritto di autore? Attendo una risposta, alla quale sono (anche per motivi personali) vivamente interessato.

Va precisato comunque che la circolarità delle opinioni e delle relative citazioni, anche in base alle comuni regole che disciplinano la carta stampata e a quelle della nostra Costituzione (art. 21, secondo cui, è bene ricordarlo, “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”: lo stesso articolo aggiunge subito dopo che “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”), non richiede alcuna preventiva autorizzazione: sia nel caso di citazione adesiva (come nella specie), sia nel caso di citazione critica.

Ma tutto questo sembra che sia ignorato sia dalla Libra edizioni sia (stando a quanto quest’ultima afferma) dal Prof. Ancora, i quali hanno erroneamente interpretato l’eliminazione della citazione come una ammissione di colpa, piuttosto che quella che solo è e rimane: l’affermazione dell’irrilevanza della citazione. Il mio articolo, infatti, rimane – anche senza di essa – sempre lo stesso, pur apparendomi personalmente (anche dopo l’eliminazione della citazione) un po’ troppo prolisso e “corposo”, anche a causa dei due lunghi post scriptum che sono stato costretto ad aggiungere.

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Category: Amministrazione pubblica

Commenti (6)

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  1. Avv. Michele Casano ha detto:

    Ecco: in tempi come questi, cominciamo con l’abolire il ministero delle pari opportunità, insieme a quello del turismo (ma non era già stato abolito per referendum, una ventina d’anni fa???)…. perdoni il livello “da bar”, anzi, da vigilia di vacanze !
    Con la consueta stima.

  2. dott. luca busico ha detto:

    Condivido tutto quello che ha detto.
    Con la consueta stima.

  3. luisetta peronato ha detto:

    Da donna e da avvocato ( rigosamente con la o finale, genere neutro ), perfettamente d’accordo con il Prof.Virga, sempre acuto nelle sue analisi.
    Se vogliamo veramente che le donne facciano parte della società a pieno titolo ( inclusi incarichi nei C.di A.) dobbiamo smetterla di considerarle ( o consideraci ) dei panda, o specie protette.
    Avere le medesime opportunità è un fatto di dna, non di norma!
    Con ossequi.

  4. Avv. Michele Casano ha detto:

    Quel che mi ha forse “incuriosito” di più, nella sentenza del TAR Lazio relativa alla Giunta Alemanno, è il suo notevole sforzo ermeneutico-ricostruttivo, teso a ricollegare la ratio più profonda della disciplina normativa in tema di “pari opportunità” alla concreta attuazione degli stessi principi fondamentali in materia di P.A. ed azione amministrativa, sanciti dall’art. 97 Cost.: i Giudici romani, in altre parole – ed in estrema, anzi: brutale sintesi – hanno affermato che la presenza di esponenti del c.d. “gentil sesso” negli Organi amministrativi, ed in generale, nell’ambito delle strutture organizzative-gestionali della P.A., sarebbe anche e soprattutto funzionale alla corretta e piena attuazione di quei principi e valori costituzionali, e ciò grazie all’apporto quotidiano nella attività amministrativa di tutto quel bagaglio culturale, di specifiche sensibilità, saperi, attitudini etc. che caratterizza le donne, in quanto persone di sesso femminile …. caro Prof. Virga, sono un pò perplesso: se non altro perchè, nel solco di un tale ragionamento, qualcuno ben potrebbe fondatamente (avuto riguardo anche solo al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.), invocare analoghe forme di “tutela della rappresentanza” anche – ad es. – per le persone omosessuali: ecco, vogliamo allora parlare della “sensibilità” e delle straordinarie doti culturali e/o artistiche di omosessuali come PierPaolo Pasolini, o Oscar Wilde ? Ma ancor prima: una legge che “tuteli” quale minoranza “debole” solo le donne, è davvero conforme al precetto dell’art. 3 Cost. ? Chiedo venia per queste mie farneticazioni giuridiche agostane … soprattutto a chi ha avuto la pazienza di leggermi fin qui !

  5. DS ha detto:

    Concordo con Lei sulla questione delle quote rosa. Da donna, giovane e avvocato, non voglio essere “ghettizzata” e tanto meno desidero essere considerata una quota, al di là del merito.
    I problemi, tuttavia, nascono proprio qui, dal merito. La società italiana è sempre meno meritocratica.
    Lei indica alcune componenti del Governo (donne), come esempi non proprio edificanti dell’apporto femminile alla politica. Se mi permette, questo suo commento è ingiusto.
    L’attuale governo, come anche il parlamento, sono pieni di personaggi che coprono cariche immeritate, a loro assegnate per ragioni diverse dal “merito” che – come anche da Lei sottolineato – dovrebbe essere unico criterio di selezione.
    Saranno migliori le istituzioni con componenti donna? forse nè migliori nè peggiori che con componenti uomini, se i criteri di selezione rimangono quelli vigenti.
    D’altra parte – volendo guardare al lato positivo – la previsione di quote, alle volte, potrebbe spingere chi decide a prendere in considerazione un più ampio spettro di persone e competenze, ciò che aumenterebbe la concorrenza, e dunque la qualità dei candidati (e quindi delle istituzioni). E’ indubbio difatti che molto spesso le donne in Italia non vengono considerate, e che, sopratutto in politica, le “cordate” e i clan sono maschili. Le donne che si avventurano su questo territorio hanno vita difficile.
    Detto ciò, anche per me non dovrebbero esserci quote, e se per noi a volte è più difficile non importa, ci impegneremo di più e sono convinta che le migliori e le più determinate comunque ce la faranno.
    Un piccolo aneddoto di chiusura: come donna avvocato, abbastanza giovane, mi capita spesso di essere chiamata “dottoressa”, a differenza di colleghi maschi (a volte loro sì “dottori”, poichè ancora praticanti). Un ingegnere campano sulla sessantina inizialmente mi chiamava “dottoressa”, con tono vagamente paternalistico. Ora – dopo vari ricorsi, pareri e atti – mi chiama avvocato.

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