Verso un nuovo diritto amministrativo

di | 10 Febbraio 2013 | 7 commenti Leggi

L’affermazione secondo cui l’attuale macchina burocratica italiana, nei vari livelli in cui si articola, è inefficiente e costituisce un freno per lo sviluppo è ormai divenuta negli ultimi tempi un vero e proprio luogo comune e costituisce un “refrain”, assolutamente trasversale, dell’attuale campagna elettorale.

L’affermazione purtroppo è difficilmente contestabile, ovviamente con qualche distinguo, facendo riferimento a qualche felice eccezione. Diceva Oscar Wilde, che amava il gusto del paradosso, che tutte le generalizzazioni sono sbagliate, anche la presente.

Tutti affermano che l’attuale apparato burocratico, oltre che elefantiaco, è inefficiente, al punto da essere peggiore di quello (ingiustamente vituperato) esistente ai tempi di Franceschiello.

Chi scrive, avendo a che fare, per ragioni per così dire professionali, con la pubblica amministrazione, non è in grado di smentire l’assunto nè comunque di imbastire una difesa per così dire d’ufficio. D’altra parte, la trasformazione di alcuni enti pubblici in società per azioni non ha migliorato la situazione, ma l’ha addirittura peggiorata.

Ricordo in particolare, a titolo d’esempio, un episodio della mia esperienza (conclusasi, come quasi tutti sanno, tempestosamente) con l’Istituto Poligrafico dello Stato, prima ente pubblico e poi trasformato in s.p.a.

Dopo l’accordo con l’IPZS che prevedeva una situazione di comproprietà al 50% della rivista elettronica Giust.it da me creata in precedenza (comproprietà che poi non è stata rispettata alla fine: ma questo è un altro discorso), stipulai anche un accordo che prevedeva la creazione di una rivista su carta – denominata “Giustizia amministrativa” – che, in base all’accordo stesso, sarebbe stata fornita al Poligrafico stesso dallo scrivente già composta e formattata (compresi gli indici) su lucidi stampati a specchio pronti per la creazione delle lastre di stampa in offset.

Ebbene, dopo appena un anno dall’uscita del primo numero, si vennero a creare una serie di disguidi, dovuti al fatto che, mentre io cercavo di rispettare scrupolosamente i termini di consegna dei lucidi (solo una volta, per un ritardo di appena una settimana, dovuto ad una grave influenza, mi fu inviata per iscritto una contestazione dall’IPZS), la stampa avveniva con un certo ritardo. Non parliamo poi della banca dati della rivista internet, alla quale, nonostante che fosse stata assunta una persona ad hoc (a dispetto della presenza di oltre cento informatici in pianta stabile presso IPZS; ogni occasione, del resto, è buona per assumere nuovo personale), dovetti por mano di persona, dopo innumerevoli rinvii; così come di persona sono state creati tutti i loghi e le intestazioni grafiche delle varie sezioni della rivista on line, tuttora esistenti, pur a seguito della sua “ridenominazione”; nell’accordo iniziale era stato invece previsto la integrale rielaborazione grafica del sito da parte dell’IPZS, mai avvenuta.

Divertente, sotto alcuni profili, ma emblematico di un certo andazzo, in particolare è stato un episodio (se non ricordo male, relativo al fascicolo del 2° bimestre del 2° anno); io avevo inviato, lavorando a rotta di collo, nei termini i lucidi e, dopo che mi era stato assicurato telefonicamente che il nuovo fascicolo era già in stampa, avevo fatto inserire nella rivista Giust.it l’indice di tale fascicolo in formato .pdf, annunciando agli abbonati l’imminente invio.

Dopo un paio di mesi da quell’annuncio un abbonato tuttavia mi mandò una email che segnalava la mancata ricezione del fascicolo in questione. Pensai ad un disguido postale. Dopo qualche settimana altro abbonato scrisse per segnalare la mancata ricezione del fascicolo. A questo punto, insospettito anche dal fatto che nemmeno io avevo ricevuto alcun esemplare del fascicolo in questione, telefonai all’IPZS, che mi tranquillizzò dicendomi che le copie erano in fase di spedizione.

Dopo che erano trascorse inutilmente alcune settimane, tornai a telefonare insistentemente. Solo a quel punto mi fu detta la verità: si erano dimenticati di trasmettere i lucidi da me tempestivamente inviati in tipografia. Conclusione della vicenda: il fascicolo è stato stampato con circa quattro mesi di ritardo rispetto alla data in cui erano pervenuti i lucidi. Probabilmente se non avessi insistito, sarebbe stato stampato molto tempo più in là. Inutile dire che il responsabile del “disguido” non ha ricevuto alcuna formale reprimenda, ma anzi, come ho appreso dopo qualche tempo, ha conseguito anche una promozione. Io, invece, per un ritardo di appena una settimana nell’invio dei lucidi di un fascicolo, avevo ricevuto in precedenza, come già detto, una contestazione scritta.

L’ammissione del fatto che la nostra P.A. italiana (comprendendo in essa anche gli enti pubblici che sono stati privatizzati) è inefficiente, tuttavia, segna una grave sconfitta per tutti coloro che – come me – attualmente insegnano diritto amministrativo e per coloro che li hanno preceduti. E’ inutile immaginare grandi sistemi od alimentare grandi illusioni (come quella creata dall’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo, secondo cui, sinteticamente, la “mission” della P.A. sarebbe quella di operare “presto e bene”), quando la realtà quotidiana testimonia il contrario.

La colpa, ovviamente, non è solo di quei docenti di diritto amministrativo che hanno assecondato l’andazzo (sponsorizzando il moltiplicarsi di organismi amministrativi privi di significato e funzione, come, ad esempio – dico una cosa scioccante per molti – le Autorità indipendenti), ma è soprattutto del legislatore e dei sindacati, che hanno concepito la P.A. sempre come un settore iperprotetto da utilizzare quale ufficio di collocamento (nel caso di enti privatizzati, senza nemmeno il disturbo costituito dal concorso pubblico) e quasi mai concepito come un servizio pubblico.

Inoltre, tutti lamentano le disfunzioni ed i ritardi della P.A., ma nessuno si prende mai la briga di indicare le soluzioni concrete per ovviare a ciò, trincerandosi al più dietro parole fumose (tipo quelle secondo cui bisogna “semplificare” gli adempimenti amministrativi, oppure mirare ad una “amministrazione digitale”).

Non è questa la sede per indicare analiticamente le soluzioni, ma è possibile tracciare alcune (grandi, ma non per ciò stesso evanescenti) linee-guida.

La prima, che ovviamente nessun partito in lizza si sente di proporre, per evidenti motivi di consenso elettorale, è quella di ridurre – ed in diversi casi di sopprimere – vari apparati burocratici in atto esistenti (non mi riferisco solo alle tanto vituperate Province, ma anche a diversi organismi pubblici, anche di rilievo costituzionale: si pensi non solo al CNEL, ma anche a diverse Autorità indipendenti, prive di sostanziali poteri, fiorite al solo scopo di fornire una serie di ben remunerati posti a personaggi legati alla politica a filo doppio). Non si tratta più di operare blandamente una “spending review”, ma una dura “spending cut”.

La seconda, anch’essa poco praticata dalla politica e dai sindacati, è quella di introdurre seriamente il principio di responsabilità nel pubblico impiego.

La terza è quella è quella di eliminare, per alcuni importi o settori, diversi adempimenti che, in modo scriteriato, sono stati estesi a tutti (basti pensare all’osservanza dei più minuti adempimenti – tipo CIG, dichiarazione sulla tracciabilità e relativo conto dedicato, dichiarazione circa il requisito della regolarità contributiva, dichiarazione circa l’osservanza della normativa antinfortunistica, anche per forniture di ridotto importo, quale ad es. un abbonamento alla presente rivista internet), uniformando in ogni caso gli adempimenti stessi (c’è ad es. chi, sempre per un abbonamento singolo, ci chiede, in aggiunta alle predette dichiarazioni, anche copia del certificato della camera di commercio non anteriore a tre mesi, in qualche caso con la dicitura antimafia, altri chiedono anche copia dello statuto e dell’atto costitutivo della società editrice … e via discorrendo: al punto che è possibile dire, parafrasando un famoso detto secondo cui “Ogni testa è Tribunale”, che “Ogni Amministrazione è Tribunale”; la P.A. italiana non solo è “policefala”, ma anche spesso schizofrenica).

La quarta è quella di rafforzare i controlli preventivi (per atti di rilevante importo) e prevedere sistematici controlli a campione (anche sulle dichiarazioni sostitutive presentate), in modo tale anche da scoraggiare possibili fenomeni di corruzione, abusi o spese inutili.

In questo senso lasciava ben sperare la più recente legislazione in materia. Ma i fatti poi hanno dimostrato il contrario. Sapete qual è stato il primo atto attuativo della legge anticorruzione? Il D.P.C.M. 16 gennaio 2013 (in G.U. n. 32 del 7 febbraio 2013), che ha istituito un “Comitato interministeriale per la prevenzione e il contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”.

D’altra parte, che ci si poteva aspettare da un Governo che, esaurita la sua spinta “tassatoria” per salvare l’Italia – mentre l’ha definitivamente affossata con tutti i balzelli introdotti, al momento di porre mano allo scomodo capitolo dei tagli (denominati col neologismo di “spending review”), ha affidato a Bondi (ex liquidatore della Parmalat) e ad Amato (Grand Commis di Stato, con oltre 30mila euro di pensione al mese) il relativo compito, come se non avesse al suo interno Ministri tecnici capaci di indicare le soluzioni?

Diceva il Pres. Salvatore Giacchetti in un sua (come al solito brillante) relazione che i nostri Governanti, quando non sanno che pesci prendere o non vogliono comunque assumere decisioni, nominano, per insabbiare tutto, una bella commissione … sulla quale, anche per i nuovi posti così creati, non mancherà mai il consenso di tutti i partiti politici e dei sindacati.

Giovanni Virga, 10 febbraio 2013.

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Category: Amministrazione pubblica

Commenti (7)

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  1. Claudio ROSSI ha detto:

    Il tema che pone il professor Virga, è gigantesco. Ognuno ha la sua ricetta ovviamente. La P.A. è, mutatis mutandis, un pò come la nazionale di calcio, rispetto alla quale ogni tifoso si sente commissario tecnico. Forse il difetto principale sta nel “manico”. Moltissime riforme sono pensate solo a scopi “propagandistici”. Pochi si occupano di quella che una volta si provò a chiamare: “copertura amministrativa delle leggi”. Nessuno cioè si preoccupa di verificare se l’impatto di nuove norme è supportato da idonee strutture, capacità professionali ed amministrative. Si trascura totalmente la “copertura economica” delle riforme, specie in questi ultimi tempi, in cui – facendo leva sulle imperiose necessità create dalla crisi economica – il legislatore assume come un mantra la formula per cui le nuove funzioni o i nuovi servizi devono essere resi “senza comportare maggiori oneri per il bilancio dello Stato”. Una volta si diceva “voler fare le nozze con i fichi secchi”!
    In generale, per nulla ci si preoccupa del fatto che la P.A. è un’azienda (un’azienda specialissima) nella quale occorre comunque “investire” oculatamente. Mentre, come osserva il Prof. Virga, essa è concepita per un verso come una vacca da mungere (i settori oggetti di vere e proprie azioni “grassatorie”) ma, per altro verso, è anche una pecora docile che si deve semplicemente tosare (i settori meno protetti e più esposti ai tagli “lineari” ora, con furbesco espediente linguistico, ridefiniti: “spending review”).
    Da anni ormai, parte rilevante della classe politica e grande stampa, hanno preso di mira la “burocrazia” come causa di ogni male, concorrendo a screditarne oltre misura e spesso irresponsabilmente l’immagine.
    Forse sarebbe bene avere finalmente presente che non esiste questa mitica P.A. (né con la maiuscola né con la minuscola) ma tantissimi enti ed organismi, ciascuno con una specificità. Ed è già un errore clamoroso gestire con la sessantina di articoli che compongono il T.U. sul pubblico impiego (D.lgs. n. 165/2001) una costellazione di plessi diversissimi per composizione, funzioni, missioni, localizzazione,organizzazione e responsabilità o privilegi. Perché accade anche questo: ci sono posti che scottano (iper responsabilizzati e quasi soverchiati dagli oneri) e posti meramente onorifici, ovviamente (l’avverbio è chiaramente provocatorio,stante i principi di proporzionalità fissati nell’at. 36 Cost.)i più remunerati e più ambiti.
    Bisognerebbe cominciare a dire che il T.U. sul pubblico impiego è tarato essenzialmente sul sistema “ministeriale” centrale e, come su un letto di Procuste, tutte le altre realtà dell’amministrazione pubblica italiana devono, obtorto collo, adeguarsi ad un modello che non può essere così flessibile da tenere conto delle diverse specificità.
    Bisognerebbe recuperare anche una distinzione fondamentale: la macchina burocratica non è titolare del potere “normativo” o lo è solo – ed entro limiti ben precisi – per quel che riguarda il livello “sub-regolamentare”. Spesso le contraddizioni che rileva il Prof. Virga non sono attribuibili alla nequizia del livello burocratico ma dalla estrema confusione del livello “normativo”.
    Ormai la “burocrazia” è asfissiata dalle norme. Le prime vittime di un sistema normativo opaco, cacofonico, ipertrofico, schizofrenico, intasato sono proprio coloro che ogni giorno sono chiamati ad applicare norme spesso cervellotiche; non di rado in perfetta contraddizione con la realtà.
    D’altro canto le nostre società sono diventate sin troppo esigenti, nel senso che vivono la demoniaca pretesa di “governare” tutto ex ante e di espungere dalla realtà l’insondabile, il caso fortuito, l’evenemenziale. Per questo, a gran voce, si chiede di “giuridificare” tutto, di prevedere tutto, di disciplinare tutto e di trovare sempre un “responsabile”. Questa pulsione, ovviamente, ha un costo è ed l’elefantiasi dell’ordinamento giuridico che pretende di permeare e di governare ogni interstizio della, per altro, sempre più polimorfa realtà sociale.
    In una situazione del genere, il rischio inefficienza è quasi naturale. Anzi, vi è da sorprendersi che ancora il sistema non collassi sotto il peso delle sue contraddizioni e dei tagli del tutto irrazionali (lineari) che si dispongono da Roma, senza alcun riferimento con le varie situazioni locali.
    Sarebbe poi maturo il tempo per cominciare a rivedere criticamente anche certe derive “ideologiche” che hanno segnato l’approccio alla materia del pubblico impiego negli ultimi decenni. L’idea, per esempio, di assumere, piuttosto acriticamente modelli “privatistici” nell’ordinamento pubblico non è stata foriera di risultati particolarmente brillanti.
    Il degrado dell’amministrazione italiana mi pare che si sia accentuato proprio a partire dal famoso D.lgs. 29/1993, che per primo inoculò l’idea di “privatizzare” il rapporto di pubblico impiego. Vanamente il Consiglio di Stato, con un noto parere del 31.08.1992 (reso sulla norma di delega al Governo), espresse riserve su tale scelta di natura prevalentemente “ideologica” per il rischio – poi rivelatosi fondato – di scardinare assetti che erano consustanziali alla tradizione ed alla cultura della nostra burocrazia. Mi pare che, lungi dal recuperare “efficienza”, la nostra macchina amministrativa ne abbia effettivamente perso in seguito a quella scelta.
    La dequotazione della nozione di “funzione pubblica” che non doveva essere più essere esercitata per sé e per la sua intrinseca, “superiore” dignità ma rimessa – almeno a livello simbolico e di sentire comune –alla “contrattazione continua” e l’idea che nella stessa remunerazione dei lavoratori pubblici dovesse contare il “risultato” contingente e “contrattato” di volta in volta, hanno concorso a degradare l’azione pubblica, diversamente da quanto postulavano i sostenitori della “privatizzazione”.
    Poco si è riflettuto sul fatto che il servizio erogato da una amministrazione pubblica non è un servizio di natura “commerciale”, “acquistabile” cioè sul mercato in regime di libera concorrenza ma, appunto, quasi sempre una “funzione pubblica” che come tale deve essere trattata. L’idea di parametrare la retribuzione al risultato solo apparentemente e teoricamente incrementa l’efficienza, in realtà droga l’intero sistema e degrada la dignità della funzione pubblica che mai dovrebbe essere soggetta al “mercanteggiamento”.
    Non a caso, i due articoli della Costituzione che si occupano della Pubblica amministrazione (97 e 98) recano in primis il principio della “imparzialità dell’amministrazione” e poi quello per cui “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”. Questi due principi cardini dovrebbero escludere che i funzionari debbano essere orientati a perseguire un “risultato specifico” (“contrattato” con l’interlocutore politico “pro tempore”) che non sia riconducibile a quello generale previsto dalle leggi.
    Al suo apice, la “privatizzazione” diventa un moloch. Con il ministro Brunetta si assiste all’esaltazione del principio “meritocratico”, esasperando ancor di più il pregiudizio che l’esercizio di funzioni pubbliche possa essere oggetto di misurazione matematica e di valutazione “scientifica”. In realtà vi è una componente fortemente “ideologica” in queste posizioni, che finiscono solo con l’irrigidire l’azione amministrativa, esasperandone pericolosamente il tasso di autoreferenzialità.
    Vale ricordare, in proposito, alcune lucide considerazioni di Alan Bennett (già Trustee della National Gallery di Londra); queste: “l’ortodossia corrente ritiene che gli impiegati pubblici facciano il loro lavoro al meglio solo se gli viene richiesto di dimostrare che stanno facendo il loro lavoro al meglio; ma questa dimostrazione richiede tempo, e quello speso a preparare le relazioni annuali e i piani aziendali che dimostrano che ciascuno sta facendo il proprio lavoro è tempo sottratto alle ore di lavoro… e il risultato è che l’istituzione è effettivamente meno efficiente di quel che potrebbe essere” ed ancora: “Come capita alla maggior parte delle istituzioni pubbliche, oggi non viene chiesto alla National soltanto di fare il suo lavoro, ma anche di dimostrarlo.
    È una pretesa controproducente, che crea un circolo vizioso. L’ortodossia corrente ritiene che gli impiegati pubblici facciano il loro lavoro al meglio solo se gli viene richiesto di dimostrare che stanno facendo il loro lavoro al meglio; ma questa dimostrazione richiede tempo, e quello speso a preparare le relazioni e i piani aziendali che dimostrano che ciascuno sta facendo il proprio lavoro è tempo sottratto alle ore di lavoro… e il risultato è che l’istituzione è effettivamente meno efficiente di quel che potrebbe essere… Oggi tutte le istituzioni pubbliche sono coinvolte in questa stupida giostra perditempo. Premessa necessaria di questa giostra è un altro malinteso – ovvero che tutto sia quantificabile e che i visitatori escano dalla National con qualcosa che può essere misurato mediante un bel questionario. Questo sarà vero forse per un 20%, e forse un 20 % di tutte queste pratiche per ottimizzare l’efficienza hanno qualche valore, o almeno valgono le ore di lavoro e di computo che richiedono”. Alan Bennett, Una visita guidata, Adelphi 2008, pp. 41 e 42.
    L’ideologia meritocratica suppone un assetto “fordista” del lavoro pubblico che semplicemente non esiste se non per particolarissimi segmenti di attività (per lo più elementari e ripetive o per particolari servizi standardizzati). Essa poi inocula in un sistema sostanzialmente “protetto” e non contendibile sul mercato uno sterile spirito di “rivalità” tra funzionari che non ha semplicemente senso. In un quadro dove i risultati non sono misurabili secondo le logiche del mercato la premialità diventa inevitabilmente un “artificio” che alimenta piuttosto che ridurre le manfrine e le inefficienze.
    La P.A., proprio perché volta a perseguire e curare il bene “pubblico”, dovrebbe essere governata, al fondo, da un principio di mutua solidarietà tra tutte le sue articolazioni. Si tratta di quella nozione di “leale collaborazione” classicamente elaborata dalla Corte Costituzionale nei rapporti tra Stato e Regioni ma che – in un ordinamento sano – dovrebbe permeare i rapporti tra tutti i soggetti pubblici di ogni livello e grado. Invece lo spirito di competizione, degradato nella pratica in “spirito di rivalità”, aumenta la frammentazione, le distinzioni artificiose e speciose.
    Tutti i governi assumono la riforma del pubblico impiego come un obiettivo fisso e prioritario per migliorare le prestazioni della macchina pubblica e come tale lo propongono alla pubblica opinione che lo accetta come un dogma.
    Invero, la storia dimostra ormai irrefutabilmente che questo accanimento terapeutico sul corpo del lavoro pubblico non produce maggior efficienza ma solo crescente disorientamento ed inefficienza.
    Riformare il pubblico impiego è una scorciatoia facile che rende anche in termini propagandistici. In verità occorrerebbe cominciare a prendere coscienza che la disciplina del rapporto di lavoro pubblico attiene solo alla superficie (per quanto molto appariscente) della macchina amministrativa. Diciamo così che ne rappresenta la sola carrozzeria. Gli apparati meccanici, elettrici ed il motore della macchina sono invece le risorse professionali (compresa la formazione continua), i mezzi, le strutture e le risorse economiche. Mentre il carburante è costituito dal materiale che il legislatore mette a disposizione della PA. Questa è la vera materia prima che alimenta l’attività della PA. Troppo spesso questo carburante è di pessima qualità, non adatto al motore in dotazione. Altre volte è adulterato; quasi sempre inquinante ed inadatto a far sì che il motore lavori a pieni giri. Ma come spesso accade, l’utente finale – ignorando o sottovalutando tutto ciò che non si vede – si lascia suggestionare dal fascino dell’appariscente e cioè dai nuovi modelli di carrozzeria che gli indefessi designer governativi propongono a getto continuo. Ed il gioco del cambio reiterato della livrea si perpetua nel tempo senza che nessuno metta mano ai sottostanti problemi reali e senza perciò ottenere alcun risultato positivo.

  2. Mauro ha detto:

    Anche lei contro le Province professore? Ma perché? Possibile nessuno voglia capire e accettare che le funzioni d’area vasta non sono trasferibili ai Comuni, e che le Regioni (almeno quelle più grandi) non possono occuparsene adeguatamente?

  3. pace antonello ha detto:

    Sulle Province ricordo e concordo quanto sostenne um grande Uomo politico italiano (Francesco Saverio Nitti) all’Assemblea costituente nel dicembre 1947: ridurle a circa 50 (stigmatizzando le follie mussoliniane che le portò da 76 a 92)e non istituire assolutamente l’ Ente Reiuone foriero di ineffiucenze e di sprechi.

  4. Alessandro Carrubba ha detto:

    Egregio professore, tra i punti da lei indicati per risolvere il problema manca del tutto un riferimento al sistema di giustizia amministrativa. Eppure a me sembra che un nuovo ed efficente sistema burocratico – amministrativo non possa prescindere da un serio giudizio che inchiodi le ineffecenze ed abusi a pesanti responsabilità e premi per converso i comportamenti virtuosi.
    E’ una mia opinione personalissima, ma ritengo che le inefficenze della p.a. che oggi non possiamo fare a meno di riscontrare siano anche il frutto del fallimento della giustizia amministrativa sempre più avvitata su se stessa ed autoreferenziale. Le più profonde elaborazioni giurisprudenziali concernono aspetti pregiudiziali e mirano a rendere sempre più difficile od inutile il ricorso alla giustizia amministrativa. E’ forse giunto il momento di ripensare a questo sistema. Sarà anche un luogo comune che tra le 8 o 9 nazioni più industrializzate abbiamo la peggiore ed inefficente P.A.; E’ certamente singolare che tra queste nazioni siamo gli unici ad avere un Giudice appositamente dedicato alla p.a.
    Cordiali saluti

  5. francesco volpe ha detto:

    Giusto. Perché mai abolire le Province?
    Io, ad esempio, sarei invece favorevole all’abolizione delle Regioni. Pensiamoci bene. Emanano degli atti che hanno valore e forza di legge (e perciò non possono essere contestati direttamente al T.A.R., ma solo in Corte e attraverso le difficili forche caudine della questione di costituzionalità incidentale), quando hanno la sostanza di regolamenti di esecuzione o di regolamenti indipendenti. D’altro canto, proprio perché sono leggi e attuate in un ambiente territoriale anche molto piccolo, ben si adattano a eludere i caratteri della generalità ed astrattezza, sì da consentire l’emanazione di leggi provvedimento o di leggi che anticipano il provvedimento la cui bozza è già stata scritta. Con sostanziale elusione del principio di legalità.
    Infine, sono dei carrozzoni di prim’ordine, con le loro brave direzioni, con i loro dirigenti e tutto quel che segue. Ecco, se dovessi tagliar qualcosa e avessi in mano la scure del legislatore costituzionale, non me la prenderei poi tanto con le Province e farei il taglio un po’ più in su.

  6. Giovanni Virga ha detto:

    Rileggendo il mio articoletto, scritto di getto, alla luce degli successivi interventi, mi rendo conto di essermi espresso male.

    In effetti, quando mi sono riferito alla soppressione delle “tanto vituperate Province” l’ho fatto in senso ironico, facendo riferimento ad un “falso bersaglio” che è facile da colpire (ma che non è esente tuttavia da critiche: una riduzione del loro numero è oltremodo necessaria).

    Mi trova perfettamente d’accordo l’idea di abolire le regioni o comunque (senza necessità in questo caso di modifiche costituzionali) di rimodularle riducendo grandemente il loro numero, prevedendo, anche a costo di sembrare in questo modo filoleghista (etichetta questa che, credetemi, anche per regioni geografiche, non mi può essere appiccicata), tre macroregioni (rispettivamente del nord, del centro e del sud).

    Del resto, fin dalla prima ora, quando tutti lodavano la grande riforma del titolo V della Costituzione, io, quasi in solitario, l’avevo aspramente criticata. Ora finalmente quasi tutti concordano nel ritenere che (non solo per il contenzioso costituzionale che ha generato) fu un grande errore.

    Inoltre in un precedente intervento in questo weblog avevo scritto quanto segue (chiedo venia per l’autocitazione): “Negli ultimi tempi c’è stato un accanimento nei confronti delle Province che, svuotate di molte funzioni, sono apparse fonte di sprechi. Non ci si è accorti invece che i veri sprechi, soprattutto nel settore della sanità (si calcola che solo la sanità regionale abbia contribuito ad incrementare di 90 miliardi di euro il deficit dello Stato), sono da attribuire alle Regioni ed ai vari Consigli regionali, organizzati come tanti piccoli miniparlamenti che distribuiscono spesso soldi in cambio di voti” (tratto dall’articolo intitolato “Le spese del consiglio regionaledel Lazio …“).

    In particolare da tempo penso (e lo stesso pensava mio padre negli ultimi anni della sua esistenza, pur essendo stato inizialmente un fervente autonomista) che per risollevare in gran parte la situazione siciliana sarebbe sufficiente un semplice articoletto, sia pure approvato con legge costituzionale, del seguente tenore: “E’ abolita la Regione siciliana ed il suo statuto speciale”. La Regione siciliana infatti si è rivelata, grazie a coloro che l’hanno amministrata nel tempo, un indiscutibile fattore di sottosviluppo.

    In generale è da dire che quando l’edificio è obsoleto e comunque troppo costoso da mantenere o da aggiustare, l’unica soluzione è demolirlo e ricostruirlo. Così almeno si suole fare in edilizia. Dubito invece che ciò si farà nel campo amministrativo, dato che troppi interessi e “mangiatoie” si sono consolidati nel tempo. Ma i problemi di finanza pubblica sono ineludibili, a meno di non volere continuare a spremere, con ulteriori tasse, un Paese che è già allo stremo.

  7. Claudio Rossi ha detto:

    Una mozione d’ordine me la consentirà, prof. Virga; pur riconoscendole – da ospitante – il diritto all’ultima parola. Il problema dell’efficienza/inefficienza della P.A. italiana, che lei meritoriamente ha sollevato nel suo primo intervento, presenta profili multiformi e dimensioni gigantesche che nessuno può pretendere di esaurire in poche righe.
    Mi pare riduttivo però circoscriverlo alla questione “aboliamo le province” o “accorpiamo le regioni”. Questi mi sembrano comunque restyling di superficie anche se molto appariscenti. Attenti però, specie in sedi serie come questa, a non rimanere soggiogati dal trompe l’œil.
    Le spese del consiglio regionale del Lazio, come –presumo – quelle di altre regioni, per quanto fenomeno clamoroso e scandaloso, non attengono direttamente all’inefficienza della macchina amministrativa ma, forse, al campo penale e sicuramente al malcostume politico. Di questi fatti si occupano giustamente le procure penali e contabili e la grande stampa, per il risvolto “scandalistico”.
    Il problema drammatico della produttività della macchina amministrativa resta in piedi comunque. La domanda che bisogna porsi, soprattutto a livello “scientifico”, è se i modelli di organizzazione e di funzionamento del lavoro pubblico in voga da 20 anni in qua abbiano dato buona prova di sé o non abbiano invece aggravato la situazione.
    La P.A., a partire dal D.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, che segna una “svolta” “ideologica” e simbolica nell’ordinamento del rapporto di lavoro pubblico, ha aumentato la “produttività” e l’efficienza o, invece, ha visto crescere il proprio degrado?
    La prova storica ci dice che molte “riforme” sono fallite eppure si insiste sempre con le stesse ricette. Condivido totalmente le sue critiche sulla incauta e demagogica riforma del titolo V ma non basta neppure quella a giustificare il marasma in cui siamo immersi.
    Si è liquidato frettolosamente il controllo di legittimità e si è optato per modelli “aziendalistici” e per controlli “interni” che – almeno a me – suscitano tantissime perplessità.
    Nello scorso autunno sono state approvate due riforme su cui poco si sta riflettendo, almeno per i risvolti strettamente amministrativi. Mi riferisco al D.L. 10.10.2012, n. 174 (convertito nella L. 07.12.2012, n. 213) ed alla L. 06.11.2012, n. 190 (pomposamente rubricata: “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” e propagandisticamente sventolata come risposta decisiva ai più gravi mali che affliggono la nostra P.A.). Anzi sulla seconda qualche attenzione si è prestata ma principalmente per i riflessi “penalistici” e per le questioni relative alla incandidabilità dei pregiudicati che hanno infervorato, per qualche giorno, la polemica politica e l’attenzione dei media. Poco o nulla si sta riflettendo sugli aspetti strettamente “amministrativi” di detta L. 190. Non è questa la sede per analisi approfondite di una materia estremamente complessa (posso rinviare alle attente osservazioni già fatte, purtroppo isolatamente, da L. Oliveri, Anticorruzione, un capro espiatorio nelle amministrazioni
    http://domeus.it/message/iframe_html.jsp;jsessionid=5CC7E6B10338940183A50AC9B4E83ABF;dom66?mid=34702302). Ma, per esempio, nessuno scandalo suscita il fatto che “negli enti locali, il responsabile della prevenzione della corruzione è individuato, di norma, nel segretario”, ossia un soggetto che – dopo la riforma Bassanini del 1997 – è strumento nelle mani del Sindaco (a causa del noto regime di spoil system) e sarebbe naturalmente incompatibile con il ruolo, come conferma la stessa circolare esplicativa della Presidenza del consiglio dei ministri del 25-1-2013 n. 1, che testualmente (e ragionevolmente) afferma: “È in ogni caso da escludere la nomina di dirigenti inseriti nell’ufficio di diretta collaborazione per la particolarità del vincolo fiduciario che li lega all’autorità di indirizzo politico e all’Amministrazione”. Gli esperti della Presidenza del Consiglio smentiscono il legislatore!
    Il D.L. 174/2012, tranne gli addetti ai lavori, è ignoto ai più ma disegna un sistema di controlli sugli enti locali del tutto “autoreferenziale”, in cui il corto circuito classico controllore/controllato è addirittura istituzionalizzato, in forza ancora di un malinteso principio di “autonomia” e del carattere necessariamente “domestico” (direi “addomesticato”) che devono avere i controlli. Si assume cioè (ved. art. 3 DL 174/2012, che riscrive integralmente alcuni articoli del TUEL) che alcuni funzionari “embedded” (ancora il Segretario ma anche “il responsabile del servizio finanziario”) possano (debbano) contemporaneamente partecipare alla gestione ed al controllo degli enti locali. Salvo però che, per coonestare il sistema, (come rileva Oliveri) si offrono alla pubblica opinione, mediamente ignara e facilmente manipolabile, dei veri e propri “capri espiatori” che pagano per tutti, secondo una logica non soltanto primitiva ed indegna di un paese civile ma sicuramente inefficiente ed inadatta al fine che la normativa pur dice di perseguire.
    Sono solo due esempi, per quanto clamorosi, di come vanno le cose in questo Paese.
    Su queste situazioni però bisognerebbe cominciare ad aprire un dibattito serio, ossia non legato a fenomeni evenemenziali e scandalistici e soprattutto non affidato esclusivamente alla pamphlettistica (stile Stella e Rizzo, per quel che riguarda la carta stampata, ma anche “Report” per quel che riguarda la televisione). Certo, serve anche quell’approccio “spiccio” per denunciare gli scandali più osceni ma occorre soprattutto una riflessione attenta per immaginare e proporre soluzioni “efficaci” e non solo e sempre “tagli” e “sanzioni” esemplari.
    L’accorpamento dei ministeri, il riassetto regionale e la revisione delle province – quando realmente praticati – incidono sicuramente sulla “carrozzeria” del mezzo (per restare alla banale metafora che proponevo a notte fonda nel mio precedente intervento) ma restano le questioni relative all’apparato motore, a quello elettrico, e soprattutto al carburante che manda avanti o blocca la macchina (le macchine) amministrativa di questo Paese.

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