Il nuovo orientamento della Sez. III del Consiglio di Stato in materia di presentazione delle liste elettorali

di | 19 Maggio 2016 | Leggi

Può destare sorpresa e, in alcuni – come pur è stato scritto nei giorni scorsi – addirittura sconcerto il nuovo orientamento della Sez. III del Consiglio di Stato recentemente espresso con una serie di sentenze in materia di presentazione di liste elettorali. Un orientamento questo che, facendo leva su un asserito “favor partecipationis” che sarebbe desumibile dalla legislazione in materia, ha finito per superare principii (come quello secondo cui non è possibile integrare ex post la documentazione mancante o dichiarazioni con riferimenti normativi erronei) che in precedenza – come affermato da altre sezioni del Consiglio di Stato sempre in materia di presentazione delle liste – erano da ritenere invalicabili.

Non a caso nei primi commenti apparsi negli organi di stampa ci si è chiesti come sia possibile pervenire a conclusioni opposte in ordine alla stessa questione, allorchè essa sia affrontata rispettivamente dai TT.AA.RR. e dal Consiglio di Stato.

Nei confronti dei c.d. addetti ai lavori tuttavia questo fatto non desta certo sconcerto: rientra infatti pienamente nella fisiologia di un processo che si articola in due gradi di giudizio la possibilità che quello che è stato affermato in primo grado possa essere ribaltato in secondo grado.

Al più invece spiazza il fatto che, nella specie, mentre i giudici di primo grado si sono in genere attenuti ai principi predicati in passato dal Consiglio di Stato, la Sez. III, sparigliando le carte e con singolare inversione dei ruoli, li ha disattesi. La Sez. III si è rivelata così apparentemente più “progressista” dei TT.AA.RR., solitamente meno conservativi.

Confesso tuttavia che, per quanto mi riguarda, il nuovo orientamento non mi ha colto di sorpresa: negli ultimi lustri infatti, anche tramite apposite norme, in alcuni settori del diritto amministrativo sono per così dire “saltati” alcuni principii, che un tempo avevano una portata quasi sacrale (come quello, appunto, dell’esclusione automatica e senza interpelli nel caso  di omissione di dichiarazioni o di documenti): si pensi ad es. al c.d. “soccorso istruttorio a pagamento” ormai previsto in materia di gare di appalto. Onde era inevitabile che prima o poi, a livello di giurisprudenza (che spesso costituisce, per così dire, la “punta avanzata” dell’evoluzione del diritto), analoghi principii fossero ritenuti applicabili anche in tema di presentazione di liste elettorali. L’interesse legittimo non è più da tempo concepito – come passate definizioni lasciavano intendere – come una pretesa alla legittimità (formale) dell’atto amministrativo e del procedimento che l’ha partorito.

D’altra parte il principio del “favor partecipationis”, predicato di recente dalla Sez. III per la presentazione delle liste elettorali, sembra corrispondere a quel “favor” che ha contraddistinto negli ultimi decenni le ordinanze cautelari in tema di esclusione da procedure concorsuali. Insomma, così come una “ammissione con riserva” non si nega a nessuno, come si dice solitamente nell’ambito del foro, in materia di esclusione da un concorso (potendosi in tal modo dimostrare l’interesse finale mediante il superamento delle prove previste dal bando), altrettanto sembra dire la Sez. III del CdS per quanto riguarda la presentazione delle liste elettorali (spettando in tal caso l’ultima parola al riguardo agli elettori).

C’è tuttavia una piccola, ma non irrilevante, differenza: nel caso di ammissioni con riserva a procedure concorsuali, l’ammissione avviene appunto con riserva, mentre nel caso di ammissioni od esclusioni di liste elettorali, l’ammissione o l’esclusione avviene in via definitiva. Inoltre, la presenza o meno di una lista può influenzare in modo non indifferente la competizione (si veda, ad es., quanto è stato scritto nei giornali sulla presenza o meno della lista Fassina nelle elezioni relative al Comune di Roma). Nel dubbio, tuttavia, sembra dirci la Sez. III, è meglio largheggiare ed ammettere tutti (o quasi), dato che saranno poi gli elettori a decidere in ultima istanza. Del resto, lo stesso c.p.a. sembra andare in questo senso, nella parte in cui consente la immediata proposizione del ricorso avverso l’esclusione della propria lista elettorale e non l’ammette per ottenere in genere l’esclusione di una lista elettorale avversaria.

Tutto bene quindi? Non poi tanto. Il pericolo è infatti che, allentando in misura considerevole la morsa del controllo su determinati adempimenti c.d. formali, si dia la stura alla presentazione di liste con documentazione approssimativa ed incompleta e, soprattutto, si dia l’impressione che determinate regole formali possano disinvoltamente essere travalicate in regione di esigenze momentanee e transeunti. Il che sarebbe estremamente pernicioso per la certezza del diritto che, a dispetto delle centinaia di migliaia di leggi che ci affliggono, rimane ancora spesso una chimera.

Il problema che ripropone la vicenda è quello dell’eterno contrasto tra l’esigenza di rispettare determinati adempimenti formali e la necessità di assicurare una giustizia sostanziale.

E’ vero che il giudice amministrativo non è più da tempo una specie di guardasigilli ed il supremo garante solo degli adempimenti formali, ma è anche vero che l’osservanza di determinate forme è tuttora necessaria per garantire la par condicio e la serietà dei procedimenti amministrativi. Esistono, come già rilevato da tempo dallo scrivente con un ossimoro, determinate “forme sostanziali”, le quali non possono rimanere inosservate senza gravi conseguenze.

Occorre quindi esaminare partitamente le singole pronunce della Sez. III per verificare se esse siano convincenti sul piano logico e del rispetto dei principi generali.

Iniziamo dalla sentenza relativa alla ammissione della lista “Fassina” (clicca qui per consultarla), che era stata esclusa perché le autentiche delle firme non riportavano alcuna data.

In precedenza il Consiglio di Stato aveva affermato al riguardo (v. per tutte Cons. Stato, Sez. V, 22 gennaio 2014, n. 282, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/a/2014/9466) che: “Nelle elezioni, sono elementi essenziali costitutivi della procedura di autenticazione: l’apposizione del timbro, l’indicazione del luogo e della data della sottoscrizione del pubblico ufficiale procedente, …”.

Con la recente sentenza della Sez. III è invece stato ritenuto (con un complicato ragionamento cha cerco di riassumere) che “per le autenticazioni nelle competizioni elettorali, a seguito della abrogazione della l. n. 15 del 1968 (e in assenza di una conseguente modifica dell’art. 14, che sarebbe stata invece necessaria), in sede interpretativa non può che considerarsi preferibile l’applicazione dell’art. 21, comma 1, del d.P.R. n. 445 del 2000 e non già del comma 2” ed in ogni caso che, “anche se per l’autenticazione delle sottoscrizioni si dovesse ritenere applicabile l’art. 21, comma 2, del d.P.R. n. 445 del 2000 (che richiede l’indicazione della data e del luogo di autenticazione), … non per questo la mancanza della data, nell’autenticazione, comporta l’invalidità ipso iure della stessa autenticazione”, atteso che “le previsioni dell’art. 14 della l. n. 53 del 2010 costituiscono lex specialis rispetto alla disciplina generale, comminando la nullità delle sottoscrizioni e delle relative autenticazioni solo se esse risultano anteriori al centottantesimo giorno precedente il termine fissato per la presentazione delle candidature”.

La sentenza tuttavia non spiega perché è stato mutato ex abrupto orientamento e soprattutto perché alle autentiche delle firme in occasione della presentazione delle liste non si applichino le ordinarie regole che prevedono – a pena di nullità – la indicazione della data  (determinandosi altrimenti una incertezza assoluta circa il momento in cui l’autenticazione è intervenuta).

Né il riferimento all’art. 14 della l. n. 53 del 2010 (che costituirebbe addirittura una specie di “lex specialis” delle autenticazioni delle firme per le liste elettorali), nel prescrivere che le autentiche debbono intervenire entro il termine ivi previsto, può giustificare una diversione rispetto alle regole generali od addirittura il principio, pur affermato, che solo in tal caso si produrrebbe la nullità dell’autentica. Tale norma, semmai, conferma che una data deve essere presente, anche al fine di permettere di verificare se l’autentica è intervenuta entro il prescritto periodo.

Altrettante perplessità suscitano le sentenze relative alla riammissione della lista “Fratelli d’Italia” (clicca qui per quella relativa al Comune di Milano e qui per quella relativa al Comune di Torino), che aveva addirittura omesso di presentare le dichiarazioni circa l’assenza di cause di incandidabilità previste dalla c.d. legge Severino.

In tal caso si è invocato un affidamento ingenerato dall’attestazione del funzionario del Comune, incaricato di verificare la documentazione, che, per mero errore, aveva attestato la completezza della documentazione, non consentendo così ai presentatori di rimediare all’incompletezza documentale nel termine di 24 ore, così come previsto dall’art. 33, ultimo comma, d.P.R. n. 570 del 1960.

Quest’ultima norma, secondo le sentenze in questione, “dev’essere letta, interpretata ed applicata come espressiva della regola generale per cui, a fronte della tempestiva presentazione delle liste, l’integrazione delle carenze riscontrate deve intendersi consentita, entro e non oltre il giorno successivo alla scadenza del termine per la presentazione delle liste, nelle (sole) ipotesi in cui si tratti di rettificazioni o regolarizzazioni di documentazione originariamente prodotta o del completamento di adempimenti sulla cui iniziale correttezza la stessa Amministrazione ha ingenerato un affidamento meritevole di tutela”.

In tal caso, come par di capire, l’errore commesso dalla P.A. nel verificare la documentazione finisce per rimediare alla originaria negligenza dei presentatori della lista che avevano omesso di presentare le prescritte dichiarazioni per tutti i candidati.

Anche qui ci troviamo in presenza di un principio innovativo che comporta una rilevante diversione rispetto ai principi ritenuti generalmente applicabili in materia di procedimenti amministrativi: solitamente si ritiene che l’omessa presentazione di un documento prescritto comporti l’esclusione, non potendo l’eventuale (erronea) attestazione di completezza della P.A. supplire all’originaria carenza o rimettere in termini per la sua successiva produzione.

Perplessità suscitano inoltre le sentenze che hanno ritenuto illegittima l’esclusione dei candidati che, nel presentare la dichiarazione circa l’assenza di cause di incandidabilità, hanno fatto riferimento all’ormai abrogata normativa del TUEL, piuttosto che a quella ormai prevista dalla legge c.d. Severino (v. per tutte la sentenza relativa ad una lista civica  per le elezioni amministrative del Comune di Milano; clicca qui per consultarla).

Vero è che in tal caso le dichiarazioni contenenti un riferimento normativo erroneo molto spesso derivavano da modelli non aggiornati predisposti dalla P.A. (onde era possibile richiamare l’orientamento ormai costante secondo cui nelle procedure concorsuali le dichiarazioni erronee o lacunose rese in base a modelli predisposti dalla P.A. non possono comportare, in base al principio della tutela dell’affidamento, l’esclusione), ma è anche vero che le cause di incandidabilità previste dalla legge Severino sono diverse e ben più ampie di quelle previste dal T.U.E.L.

In  ragione di tale diversità, lo stesso Consiglio di Stato, con la sentenza della sez. V, 9 maggio 2014, n. 2388, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/a/2014/77309 aveva ritenuto che l’erroneo riferimento normativo comportava esclusione dei candidati, aggiungendo che “le dichiarazioni dei candidati ad una competizione elettorale relative alla insussistenza delle cause di incandidabilità che siano state effettuate richiamando l’abrogato art. 58 T.U.E.L., anziché l’art. 10 d.lgs. n. 235 del 2012, costituiscono dichiarazioni incomplete e non meramente irregolari, in relazione ad un requisito essenziale (relativo all’elenco delle ipotesi delittuose che gli interessati hanno dichiarato insussistenti), che non può essere integrato successivamente alla scadenza del termine di presentazione delle candidature, pena la violazione della par condicio e la violazione dell’interesse pubblico alla necessaria concentrazione e celerità delle fasi del procedimento elettorale”.

Ha ritenuto invece la recente sentenza della Sez. III in argomento che “non osta all’affermazione del principio la diversità e, comunque, la non perfetta coincidenza delle cause di incandidabilità ora previste dall’art. 10 del d.lgs. n. 235 del 2012 rispetto a quelle previste dal citato art. 58, essendo incontestabile la volontà dei candidati, al di là dell’erroneo riferimento normativo, di certificare l’assenza, in via generale, delle cause che ostino all’incandidabilità per concorrere alle attuali elezioni, secondo la legislazione vigente, nella consapevolezza delle conseguenze amministrative e anche penali che ne conseguono.

L’erroneità della dichiarazione tempestivamente depositata può dunque essere integrata, configurando una mera irregolarità, ai sensi dell’art. 33, ultimo comma, del d.P.R. n. 570 del 1960, consentendo la rettificazione di tale dichiarazione, con la presentazione, entro il termine stabilito da tale disposizione, di un’attestazione regolare, per mezzo del corretto riferimento alle cause di incandidabilità previste dallo stesso art. 10 del d. lgs. n. 235 del 2012 (la cui assenza in concreto non risulta del resto, nella specie, contestata)”.

In questo quadro generale ispirato, come già detto, al principio del “favor partecipationis”, tuttavia costituisce una nota dissonante la sentenza relativa all’esclusione della lista del “Grillo parlante”, confermata dalla Sez. III per asserita “confondibilità” del simbolo elettorale prescelto con quello della lista del Movimento 5 Stelle; e ciò a dispetto del fatto che, come pur si ammette, nel simbolo del Movimento 5 Stelle ormai non figura più il nome del fondatore del Movimento, Beppe Grillo, il quale – facendo un “passo di lato” – ha chiesto che il suo nome non comparisse più nel simbolo. Ma, secondo la Sez. III del CdS il nome di Grillo è indissolubilmente legato a quello del Movimento 5 Stelle, onde il simbolo prescelto della predetta lista è da considerare confondibile.

In questo caso, quindi, il principio del “favor partecipationis” non vale più. Insomma, la new wave della Sez. III non è del tutto univoca e, soprattutto, non sempre giustificabile alla luce dei precedenti in materia. Lascio ai lettori giudicare quali conseguenze tale nuovo orientamento comporta sul piano della certezza del diritto.

Ricordo solo che mi sono sempre così tanto dedicato alle riviste giuridiche  anche per limitare la discrezionalità dei giudici, convinto come sono che, nel campo del diritto così come in qualsiasi altro settore, è sempre possibile mutare opinione (come, del resto, ci insegnano continuamente le Sez. Unite della Cassazione), ma il nuovo arresto, per non ingenerare sospetti, deve essere anche persuasivo e convincente. E ciò vale soprattutto nel campo elettorale, nel quale i sospetti e le dietrologie sono molto diffusi.

Forse, a ben pensarci, aveva ragione l’Adunanza Plenaria del CdS, la quale (con sentenza del 24 novembre 2005 n. 10, in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/p/52/cdsap_2005-11-24.htm, poi disattesa dalla Corte Cost., con sentenza 7 luglio 2010 n. 236, ivi, pag. http://www.lexitalia.it/a/2010/56025), memore della battaglia relativa alla esclusione della lista Mussolini, essendo ben conscia dell’estrema delicatezza del tema, ebbe ad affermare che tutte le questioni relative alla presentazione delle liste elettorali andavano proposte solo ex post, in occasione della delibera di convalida degli eletti.

Giovanni Virga, 19 maggio 2016.

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Category: Amministrazione pubblica

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