Il giudice amministrativo alle prese con il genitore vegano
Un vecchio broccardo latino recita che “de minimis non curat praetor” (il che, traducendo sommariamente, significa che il giudice – od anche il giurista – non dovrebbe occuparsi delle questioni minime).
Se si potesse applicare ancora oggi tale principio, il TRGA, Sez. di Bolzano, non avrebbe dovuto occuparsi del ricorso proposto dalla madre di un minore che doveva essere iscritto ad una scuola di infanzia avverso il diniego del Comune di Merano di fornire allo stesso un pasto vegano alla mensa scolastica. Così non ha potuto fare il predetto Tribunale, dato che il giudice (anche amministrativo, compreso il Consiglio di Stato ancora configurato come “giurisdizione superiore” ed innanzi al quale, per difendere, occorre essere patrocinanti in Cassazione), nel nostro ordinamento deve occuparsi di tutte le questioni proposte, anche se minime e bagatellari (clicca qui per la sentenza in questione, pubblicata in LexItalia.it).
Chi scrive, tuttavia, diranno alcuni lettori, non essendo un giudice poteva esimersi dall’occuparsi della questione. Ma lo scrivente ha deciso invece di parlarne non solo perché è un semplice professore associato (i professore ordinari, tipo quelli che dirigono la rivista che ho vent’anni fa fondato, ricevendone perfino un premio, non si sognerebbero mai – dall’alto della loro cattedra – di scrivere sull’argomento), ma anche perché preferisce seguire un altro broccardo latino secondo cui è possibile desumere dalle piccole cose quelle più grandi (si parva licet componere magnis). E la sentenza del TRGA sulla madre vegana è, a dispetto dell’apparenza, piena di implicazioni più grandi e serie del singolo episodio da cui trae origine.
Una prima implicazione è quella alla quale ho già fatto cenno: il giudice amministrativo nel nostro ordinamento non può rifiutarsi di dare una risposta alla domanda di giustizia.
Per la verità ho avuto modo di constatare nel corso della mia ormai ultratrentennale attività di direzione di riviste giuridiche che, di fronte a questioni bagatellari, il giudice amministrativo spesso risponde con questioni processuali. Nella specie, il TRGA avrebbe potuto dichiarare facilmente il ricorso inammissibile per acquiescenza, dato che, dopo il rigetto della domanda, la madre vegana aveva presentato una nuova domanda di iscrizione con la quale aveva dichiarato (barrando l’apposita casella) di “accontentarsi” che nei pasti forniti non fossero presenti né carne né pesce.
Tuttavia il TRGA, rilevato che, da un lato, il modulo prestampato non prevedeva l’opzione del menù vegano e, dall’altro lato, che la ricorrente aveva allegato alla nuova domanda di iscrizione una nota della pediatra di Ferrara, in cui quest’ultima chiedeva “di escludere dalla dieta di -OMISSIS- uova, latte e derivati, anche come ingredienti della pietanza”, in quanto “segue una dieta di tipo vegano”, ha ritenuto che non sussistevano gli estremi per l’acquiescenza, dato che non era chiaro se, con la nuova domanda, la madre vegana aveva voluto rinunciare alla richiesta di una dieta conforme ai dettami di questa che, per la verità, sembra non già una dieta, ma una sorta di religione.
Si tratta della reiezione di un’eccezione che sembrava non del tutto infondata, ma che ha il merito (scusate il bisticcio) di affrontare il merito della questione. Personalmente non amo tutte le sentenze che si attardano in eleganti questioni preliminari, per non affrontare il merito.
Nella specie il merito è stato deciso secondo il principio generale, previsto dall’art. 3 della L. n. 241 del 1990, ma nella Provincia di Bolzano declinato dall’art. 5 della legge regionale 31 luglio 1993, n. 13, secondo cui “1. Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato”. Ha constatato il TRGA che nella specie il provvedimento di diniego impugnato, violando la detta norma, non ha indicato “le ragioni giuridiche” che avevano indotto la P.A. a rigettare l’istanza della madre vegana.
A questo punto tuttavia occorre fare un passo indietro. Come risulta dalla motivazione della sentenza, nella specie la P.A. aveva predisposto un modello di domanda che prevedeva molte più opzioni di quante ne immaginerebbe la migliore compagnia aerea per i pasti da servire a bordo. Infatti il modulo prevedeva una delle seguenti opzioni: diabete; favismo, celiachia e allergie/intolleranze: quanto alle diete speciali per motivi familiari le opzioni erano le seguenti: menù senza carne, menù senza carne di manzo, menù senza carne di maiale e menù senza carne e senza pesce.
La ricorrente aveva aggiunto al modello prestampato, di suo pugno, una ulteriore casella: “vegano”, barrandola. Non era quindi la P.A. che doveva spiegare perché non aveva previsto una ulteriore casella e magari qualche altra (tipo: senza sale; senza pepe; senza uova, ecc.).ma la madre vegana a spiegare perché una alimentazione che prevedesse ad es. uova (ma non carne e pesce: scelta questa consentita dal modello previsto dalla P.A.) fosse dannosa per il proprio bambino.
In realtà si trascura il fatto che mentre ci sono patologie (tipo diabete, favismo, celiachia, ecc.) che richiedono una determinata dieta, la dieta vegana non poggia su basi scientifiche, ma sembra anzi una sorta di religione che è contraddetta da illustri medici (i quali ritengono che, specie nella fase dell’infanzia e della adolescenza, le proteine animali sono necessarie).
In ogni caso la sentenza in commento si fonda su un principio errato, secondo cui la P.A., per ogni provvedimento, deve fornire una motivazione: nella specie la motivazione era in re ipsa nel modello predisposto dall’Amministrazione stessa, il quale aveva previsto delle diete speciali solo per coloro che sono affetti da particolari patologie (diabete, celiachia, favismo, ecc.).
Più in generale, non è possibile immaginare una Amministrazione, è il caso di dire, “a la carte” e cioè che consenta delle scelte che nemmeno le migliori compagnie aeree offrono e che deve giustificare qualsiasi comportamento che non soddisfi la pretesa del singolo cittadino.
Le risorse della P.A. sono infatti, specie in questi tempi, finite e non è possibile – se non in un mondo che non esiste – soddisfare minutamente tutte le richieste degli associati.
Il paradosso della sentenza emerge verso la fine: mentre il diniego impugnato è stato ritenuto illegittimo, perché non ha indicato le “ragioni giuridiche” del diniego di somministrazione di una dieta vegana, il provvedimento stesso è stato ritenuto legittimo nella parte in cui è stato redatto in lingua tedesca, dato che, in base ad una norma risalente, nel caso di istanza redatta in lingua straniera è possibile rispondere nella stessa lingua (forse si tratta di norma che traduce in termini giuridici il vecchio detto “come mi canti, ti suono”).
Tuttavia occorre tener conto che, se già, secondo il TRGA, il provvedimento era scarsamente intellegibile perché privo di adeguata motivazione, figuriamoci come diventa, agli occhi di un comune mortale, se redatto in lingua straniera.
La circostanza comunque dimostra che non solo in Italia, in considerazione della sterminata produzione legislativa, è possibile rinvenire una norma per qualsiasi esigenza, ma è importante che la forma sia salva, anche se poi la sostanza è sbagliata.
Giovanni Virga (26 marzo 2017)
Category: Amministrazione pubblica
Credo che una vicenda come questa avrebbe dovuto trovare soluzione (secondo il semplice buon senso) in un accordo tra il medico dietologo curante del bambino e il responsabile del servizio di refezione scolastica, senza andare ad appesantire il sistema giustizia. In ogni caso, credo che il genitore avrà sostenuto anche spese importanti per il giudizio e forse, con una spesa più contenuta, poteva convenzionarsi con un servizio catering di propria fiducia per la consegna dei pasti a scuola per il proprio figlio. Ovviamente, in quest’ultimo caso la famiglia non avrebbe dovuto sostenere le spese per la mensa scolastica.
Apprezzo molto questa nota, sia per lo stile, sia per i contenuti.
Al di sopra dell’episodio contingente, sarebbe molto utile una riflessione collettiva sui limiti di ciò che è esigibile dai servizi pubblici, pur nel c.d. “stato sociale”: fino a che punto può arrivare la pretesa del cittadino di ottenere servizi “su misura” in base non solo alle sue obiettive necessità, ma alle sue preferenze personali, del tutto soggettive? E fin dove arriva l’obbligo della motivazione degli atti amministrativi?
La mia idea è che in certi casi (ovvero per certi profili dell’atto amministrativo) la motivazione è in re ipsa, ossia si desume ragionevolmente dalla situazione di fatto e dal contesto. Non ho mai approvato che la legge n. 21/1990 sancisse che “tutti i provvedimenti amministrativi debbono essere motivati”; non c’era bisogno di dirlo, perché in cento anni di vuoto normativo il Consiglio di Stato aveva elaborato anno per anno una raffinatissima e articolata disciplina sulla motivazione, risolvendo tutti i problemi; e la norma di legge, nella sua rozza semplificazione, si prestava a mandare in soffitta tutta quella disciplina giurisprudenziale.
Di questo passo qualcuno arriverà ad impugnare per difetto di motivazione l’atto con cui al pronto soccorso gli hanno assegnato il codice verde invece che quello giallo; e ci sarà qualche giudice che lo prenderà sul serio.
Gent.mo Pier Giorgio condivido con Te e con il Prof. Virga il concetto della motivazione in re ipsa. Quanto al Tuo esempio relativo ai Codici assegnati al Pronto Soccorso, Ti assicuro che dalle mie parti, spesso, purtroppo, le questioni non vengono affrontate dal TAR ma dal Giudice penale . . . forse perché il confine tra diritti e interessi è assai labile . . .