Il caso Englaro e il principio della intangibilità del giudicato

di | 7 Febbraio 2009 | 8 commenti Leggi

Se non si trattasse di una vicenda estremamente delicata, che pone interrogativi dilanianti, qual è quella di Eluana Englaro, tutto quello che è successo a livello istituzionale negli ultimi giorni a margine della vicenda stessa sembrerebbe costituire una vera e propria sceneggiata, nella quale i principali attori (il Capo dello Stato che, con la sua lettera preventiva, intende apparire come il garante supremo della Costituzione e il Presidente Berlusconi che, con l’approvazione del decreto legge nonostante la citata lettera, intende apparire come il garante dell’autonomia del Governo) interpretano le parti assegnate loro dal copione.

Ancora non sono del tutto chiari alcuni dettagli della vicenda che ha visto contrapposti il Presidente della Repubblica Napolitano ed il Presidente del Consiglio Berlusconi.

In particolare non è stato chiarito se la lettera (sia pure personale e riservata, ma poi pubblicata nel sito del Quirinale) che il primo ha inviato al secondo e che Berlusconi ha letto all’inizio del Consiglio dei ministri di ieri, con la quale si preannunciavano le motivazioni del rifiuto del Capo dello Stato di firmare un decreto legge in materia, sia stata una iniziativa autonoma del Presidente della Repubblica, sollecitato dalle notizie giornalistiche che erano circolate nei giorni scorsi, ovvero tragga origine dalla richiesta, sia pure informale, che sarebbe stata fatta dallo stesso Berlusconi, tramite il fido Letta, per ottenere una specie di nulla osta preventivo al decreto, sulla base di una vera e propria prassi che si sarebbe instaurata negli ultimi mesi.

Non si tratta di un particolare di poco conto dato che, mentre nel primo caso avrebbe ragione Berlusconi nel sentirsi sotto tutela e nel reagire al comportamento del Capo dello Stato con l’adozione di un decreto legge che sapeva in anticipo che non sarebbe stato firmato (per riaffermare l’autonomia del Governo, rispetto ad altri poteri dello Stato), nel secondo caso invece avrebbe torto Berlusconi nel leggere in pieno Consiglio dei Ministri una lettera da lui sollecitata e che era solo a lui indirizzata, rompendo il tradizionale riserbo istituzionale e, soprattutto, nel far adottare dal Consiglio dei Ministri un decreto legge che non aveva alcuna possibilità di ottenere l’indispensabile firma del Capo dello Stato, dopo che egli aveva chiesto in via preventiva il suo parere.

Comunque sia, ammesso per un attimo che vi sia una prassi, che si sarebbe sotterraneamente instaurata negli ultimi tempi (come si afferma in alcuni articoli pubblicati nei giornali di oggi), la quale prevede l’ottenimento da parte del Governo di una specie di nulla-osta preventivo del Capo dello Stato per i decreti legge, si tratta di una prassi del tutto sbagliata e da interrompere immediatamente, fermo rimanendo comunque il potere del Capo dello Stato ex post di non firmare i decreti che non posseggono i requisiti di necessità ed urgenza e fermo rimanendo anche che il numero dei decreti legge emessi negli ultimi anni è abnorme ed il loro continuo utilizzo comporta una palese espropriazione delle normali funzioni assegnate al Parlamento, specie se associato ad un frequente ricorso alla questione di fiducia.

Al di là comunque della questione se la norma che intendeva varare il Governo Berlusconi possedeva i prescritti requisiti di necessità ed urgenza (ormai superata dalla mancata firma del decreto legge da parte del Capo dello Stato), rimane al fondo una domanda che si porrà anche in relazione alla disciplina contenuta nel disegno di legge varato ieri in tutta fretta dal Governo Berlusconi, che si intenderebbe approvare a spron battuto entro il termine inverosimile di 3 giorni; e cioè se sia ammissibile una legge che intende disciplinare anche una questione (come quella del caso Englaro), ormai coperta da giudicato.

La risposta a tale quesito è decisamente negativa, alla luce della giurisprudenza ormai costante sul punto della Corte costituzionale: il Giudice della leggi ha più volte affermato infatti che sono costituzionalmente illegittime tutte quelle leggi che tentano di disciplinare nuovamente questioni ormai coperte da giudicato; insomma, il principio dell’intangibilità del giudicato, in una sana democrazia nella quale vige il principio non solo di separazione ma anche di bilanciamento dei poteri, vale anche per il legislatore. La c.d. “primazia” della politica non può infatti spingersi fino al punto di mettere nel nulla, mediante apposite norme di legge, sentenze passate in giudicato.

Sia consentito in proposito richiamare le più recenti pronunce in materia:

1) v. innanzitutto la sentenza della Corte costituzionale 15 luglio 2005 n. 282, in LexItalia.it, secondo cui “al legislatore è precluso intervenire, con norme aventi portata retroattiva, per annullare gli effetti del giudicato: se vi fosse un’incidenza sul giudicato, la legge di interpretazione autentica non si limiterebbe a muovere, come ad essa è consentito, sul piano delle fonti normative, attraverso la precisazione della regola e del modello di decisione cui l’esercizio della potestà di giudicare deve attenersi, ma lederebbe i principi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e le disposizioni relative alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi”.
Con la stessa sentenza è stato affermato che, “al di fuori della materia penale (dove il divieto di retroattività della legge è stato elevato a dignità costituzionale dall’art. 25 Cost.), l’emanazione di leggi con efficacia retroattiva è consentita, ma incontra una serie di limiti che attengono alla salvaguardia, tra l’altro, di fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario”;

2) v. anche la sentenza della Corte 13 luglio 2007 n. 267, in LexItalia.it, secondo cui le “leggi-provvedimento”, sotto il profilo costituzionale, sono ammissibili entro limiti sia specifici (qual è, ad esempio, quello del rispetto della funzione giurisdizionale in ordine alla decisione delle cause in corso), sia di carattere generale (e cioè del principio della ragionevolezza e non arbitrarietà) (in applicazione del principio con tale sentenza è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 11-quinquies, comma 7, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, inserito dalla legge di conversione 2 dicembre 2005, n. 248, il quale disponeva che gli immobili nella stessa indicati erano esclusi dalle procedure di vendita di cui al decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, dopo che con due sentenze definitive del Consiglio di Stato era stato affermato l’obbligo dell’ente proprietario di alienarli al prezzo previsto per quelli non di pregio”);

3) v. infine la sentenza 7 novembre 2007 n. 364, in LexItalia.it, secondo cui “in materia non penale la legittimità di leggi retroattive è condizionata dal rispetto di altri principi costituzionali e, in particolare, di quello della tutela del ragionevole, e quindi legittimo, affidamento”.

Il principio dell’intangibilità del giudicato da parte del legislatore è stato ribadito anche dal Consiglio di Stato (v. la sentenza della Sez. IV, 19 ottobre 2004 n. 6729, in LexItalia.it, secondo cui “il potere del legislatore di emanare leggi-provvedimento, anche se non trova un limite insuperabile nella pendenza di ricorsi avverso il provvedimento amministrativo, in ogni caso non può travolgere una sentenza passata in giudicato, atteso che la formazione del giudicato su di un determinato atto amministrativo impedisce al legislatore di sussumerlo in una legge-provvedimento”.

Per superare il problema, qualcuno ha sostenuto che il principio generale di intangibilità del giudicato, neanche da parte del legislatore, non sarebbe applicabile al decreto della Corte di Appello di Milano sul caso Englaro, emesso a seguito della nota (e discutibile) sentenza della Sez. I della Corte di Cassazione, dato che tale decreto (e la sentenza della Cassazione che l’ha preceduto) sono stati emessi in sede di volontaria giurisdizione, al fine di colmare una evidente lacuna dell’ordinamento.

L’argomentazione non convince sotto vari profili, dato che: a) anche le pronunce emesse in materia di volontaria giurisdizione sono suscettibili di passare in giudicato, al pari delle ordinarie sentenze; b) la circostanza che la sentenza della Cassazione sia stata emessa in una situazione di vuoto legislativo non la pone nel nulla nel caso in cui tale lacuna sia colmata con l’approvazione di apposita disciplina.

Per quanto riguarda il merito della vicenda, e la regolamentazione che si intende dare in materia, si condividono pienamente le considerazioni svolte nell’articolo di Ernesto Galli della Loggia pubblicato nel Corriere della Sera di oggi, secondo il quale il principio-guida dovrebbe essere quello di lasciar fare alla natura il suo corso, non indulgendo in accanimenti terapeutici che finiscono per allungare artificialmente vite che non hanno speranza di essere spese in modo degno e cosciente, precisando tuttavia che la alimentazione e la idratazione forzata non rientrano nella nozione di accanimento terapeutico.

Giovanni Virga, 7 febbraio 2009.

Print Friendly, PDF & Email

Category: Giustizia, Società

Commenti (8)

Trackback URL | Comments RSS Feed

  1. pierpaolo de caro ha detto:

    Gentile Prof. Giovanni Virga
    condivido quello che lei ha scritto e la ringrazio per la chiarezza che ha usato e per l’importante contributo al dibattito nel paese, è giusto mobilitarsi per la libertà, il rispetto della Legge e della Costituzione messi in pericolo nel nostro paese.
    Continuerò a seguire il suo sito che tengo sempre come prima pagina di apertura di internet, per l’importanza dei temi che tratta per la mia professione da tanti anni.
    Avv. Pierpaolo De Caro

  2. Federico Salafava ha detto:

    Volevo solo dire che la Corte costituzionale (anche se in un non recente arresto, peraltro attribuibile niente meno che alla penna di Costantino Mortati) ha chiaramente ammesso che la retroattività possa travolgere i rapporti esauriti: «una volta ammesso il potere di disporre legislativamente con efficacia su rapporti anteriori, non può venire in considerazione il fatto che siano esauriti, dato che proprio in confronto ad essi si presenterebbe, se esistesse, il divieto di successivi interventi in ordine ai medesimi» (sent. 19/70).

    Quando il rapporto si sia esaurito per effetto di una sentenza passata in giudicato, si pone, in effetti, il problema della compatibilità di una legge che disponga in tal senso con il principio di separazione dei poteri.

    Risposta affermativa è stata peraltro data da Quadri ( in Applicazione della legge in generale, in Commentario del Codice Civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1974).

    Risposta negativa ha fornito, invece, Azzariti (in Il principio della irretroattività e i suoi riflessi di carattere costituzionale, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1955) e, nella dottrina straniera, tra gli altri, da Delpérée-Rasson-Roland-Verdussen (in Belgique, Relazione alla Tavola rotonda su Constitution et sécurité juridique, in Annuaire int. de just. const., 1999) e Mathieu (France, ibidem).

    Nella dottrina tedesca Pieroth (in Rückwirkung und Übergangsrecht. Verfassungsrechtliche Ma|gbstäbe für intertemporale Gesetzgebung, Berlin, 1981) sostiene esattamente l’irrilevanza del principio della separazione dei poteri nelle questioni della retroattività.

    Secondo Paladin (in Appunti sul principio di irretroattività delle leggi, in Foro amm., 1959), il travolgimento del giudicato sarebbe precluso dal divieto di leggi personali (contra Cerri, in Leggi retroattive e Costituzione, in Giur. Cost., 1975, e, da ultimo, Cariola, in AA. VV., Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, I, Milano, 2006).

    Posizione in certo modo intermedia quella di Sandulli (in Il principio della irretroattività delle leggi e la costituzione, in Foro Amm., 1947, II), ad avviso del quale sarebbe illegittima una legge (singolare o generale) che privasse di forza uno o piú giudicati, mentre non lo sarebbe una legge che «apport[asse] con forza retroattiva una innovazione all’ordinamento giuridico», determinando il venir meno, di riflesso, degli effetti sostanziali del giudicato.

    Appare, in ogni caso, assai dubbio che la Costituzione definisca una vera e propria riserva di giurisdizione di fronte alla legislazione: la soggezione del giudice alla (sola) legge depone, anzi, in senso esattamente contrario.

    Va da sé, peraltro, che la legittimità di una legge incidente sul giudicato dovrebbe essere valutata con particolare severità.

    Ciò, pervero, non tanto in forza di una pretesa intangibilità delle prerogative della magistratura anche in rapporto al legislatore, quanto per diverse ragioni (in particolare, certezza giuridica e affidamento del cittadino).

    In ogni caso, deve concordarsi con chi (Tarchi, Le leggi di sanatoria nella teoria del diritto intertemporale, Milano, 1990) osserva che la legge che intendesse rimuovere gli effetti del giudicato non potrebbe limitarsi ad operare sulla norma applicata dalla sentenza passata in giudicato, ma dovrebbe operare anche sulla norma che regola gli effetti del giudicato, altrimenti il voluto impatto retroattivo non si potrebbe — per evidenti ragioni logiche — determinare.

  3. andrea calzolaio ha detto:

    Condivido l’approccio equilibrato del prof. Virga.
    Condivido in particolare la critica ad una ipotetica prassi di rapporti che confonde i poteri dello Stato e in particolare quello del Presidente della Repubblica rispetto al Governo.
    Non va sottaciuto poi che la adesione alle tesi di Galli della Loggia comporta un serissimo dissenso rispetto alle scelte che sono state compiute dal padre di Eluana ed avallate dalle decisioni dei Giudici, che sono a dir poco discutibili sotto vari profili e in particolare sotto il profilo della qualificazione come terapia della alimentazione ed idratazione mediante sondino nasogastrico.
    Per una critica tutta in punto di diritto, quanto mai articolata e convincente, della sentenza della Cassazione n.21748/07, segnalo l’articolo del prof. Francesco Gazzoni in http://www.judicium.it, intitolato “La Cassazione riscrive la norma sull’eutanasia”.
    Mi chiedo infine se il tema del rapporto fra eventuale legge sopravvenienda e passaggio in giudicato di una decisione in materia di volontaria giurisdizione non debba essere valutato anche alla luce del carattere proprio di tali fattispecie, aventi carattere “amministrativo” e caratterizzate da decisioni assunte “allo stato degli atti”. Alla modificazione dei riferimenti materiali (poniamo ad esempio la uscita dal come) si potrebbe negare rilevanza? E alla sopravvenienza di norme positive applicabili?

  4. Francesco Drago ha detto:

    Chiar.mo Prof. Virga,
    com’è noto, l’articolo 77 della nostra Carta fondamentale attribuisce inequivocabilmente alla responsabilità del Governo la scelta sul ricorso alla decretazione d’urgenza. Se si esclude il caso, tutto particolare, della aberrazione dovuta alla reiterazione dei decreti-legge non convertiti dalla Camere, gran parte della dottrina costituzionalistica (Mortati, Martines, Cicconetti, Rescigno ecc…) non riconosce al Capo dello Stato il potere di rifiutare l’emanazione di un decreto-legge, se non nei casi in cui questo risulti privo dei requisiti essenziali per la sua stessa esistenza – e cioè quando non sia nemmeno riconoscibile come atto del Governo – oppure il suo contenuto concretizzi per il Presidente della Repubblica le fattispecie di attentato alla Costituzione o dell’alto tradimento di cui all’articolo 90 della Costituzione. Qualora, invece, il Capo dello Stato non condivida, in tutto o in parte, i contenuti o i presupposti del decreto egli può soltanto invitare il Governo ad un riesame dell’atto, salvo dover procedere all’emanazione dello stesso nel caso in cui il Governo insista nel volerlo approvare, anche se per assurdo sia incostituzionale (cfr., tra gli altri, V. Onida, Al Parlamento l’ultima parola, in Il Sole 24 ore del 7 febbraio u.s.: “ove permanesse un contrasto assoluto di valutazione sulla costituzionalità del decreto, il Governo potrebbe rivendicare l’ultima parola (salve le successive valutazioni delle Camere in sede di conversione), così come ha l’ultima parola il Parlamento sulle leggi che il Presidente della Repubblica rinvia”.)
    Del resto la valutazione definitiva sulla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti avente forza di legge non spetta al Capo dello Stato, ma alla Corte costituzionale, la quale adita nelle forme previste procede ad annullare (con efficacia ex tunc) gli atti legislativi che si pongano in contrasto con la Costituzione.
    Detto ciò, non può non stupire allora la posizione assunta dal Capo dello Stato nella nota e triste vicenda di Eluana Englaro, giacché, come si apprende dal comunicato della Presidenza, il Capo dello Stato, preso atto con rammarico che la deliberazione da parte del Consiglio dei Ministri del decreto-legge non superava le obiezioni di incostituzionalità da lui tempestivamente rappresentate e motivate, ha ritenuto di non poter procedere alla emanazione del decreto. A prescindere da ogni considerazione circa la bontà delle obiezioni di costituzionalità mosse dal Capo dello Stato, risulterebbe di estrema importanza conoscere nel dettaglio i precedenti richiamati a sostegno della sua decisione di formale diniego di emanazione del decreto legge in questione. Ed infatti, la sensazione che se ne trae è quella che, perlomeno nella gran parte di essi, i Presidenti della Repubblica allora in carica si fossero limitati a rinviare i testi dei decreti legge al Governo, il quale avrebbe poi deciso, autodeterminandosi, di battere in ritirata (vedi, a tale riguardo, quanto affermato dal Presidente emerito della Repubblica, F. Cossiga, in una intervista del 7 febbraio u.s. pubblicata su Italia oggi).

    dott. Francesco Drago

  5. claudio Rossi ha detto:

    Il Presidente della Repubblica ha “bloccato” l’adozione del DL (che è atto tipicamente “governativo” stante il comma 2 dell’art. 77, cost.) sul caso Englaro.

    Ha invocato non solo questioni sulla “idoneità” della fonte di produzione normativa prescelta ma anche quello che lui stesso ha definito “fondamentale” motivo ostativo di merito, il seguente: “il …. principio della distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato non consente di disattendere la soluzione che per esso è stata individuata da una decisione giudiziaria definitiva”….

    E come mai ha poi “autorizzato” ex art. 87, comma 4, la presentazione del DDL S.1369 senza nulla obiettare?

  6. Antonio Vallini ha detto:

    Il problema che mi pongo è:

    ma cosa copriva il “giudicato”, nel caso di specie?

    Si autorizzava il tutore a rifiutare le cure “per” il rappresentato, o sbaglio?

    Il problema tuttavia è: una volta riconosciuto ed acquisito quel diritto, che determina il dovere per il medico di interrompere le cure, che succede se, nel mentre si stanno sospendendo le cure, interviene una nuova disciplina che le rende senz’altro obbligatorie?

    Voglio dire, per gli atti del medico SUCCESSIVI all’entrata in vigore del decreto, vale quel giudicato – che però riguardava direttamente il tutore, non il medico – o vale la nuova disciplina?

    Possibile che un atto che si protrae successivamente ad una norma che lo dichiara illecito, possa ritenersi lecito in virtù di un giudicato precedente che attribuiva ad altri (il tutore) la facoltà di porre in essere un presupposto di liceità (il rifiuto di cure), che dopo il mutamento del quadro normativo non è più tale (cioè non è più in grado di rendere lecita la sospensione delle cure)?

    Osservando la questione da altro punto di vista, parlare di “retroattività”, in questo caso, non mi sembra appropriato, dato che la norma si sarebbe applicata non già ad un fatto passato e concluso, regolato dal giudicato, ma ad un fatto successivo (cioè, protrazione del protocollo dopo l’entrata in vigore del decreto)

    Noto poi che la norma non era formulata per essere applicata “solo” ad Eluana; anche se certo l’intenzione era quella. Mimesi, truffa delle etichette, o aspetto sostanziale che fa venir meno i dubbi di costituzionalità che sempre riguardano una “legge provvedimento”?

    Tutto ciò a tacere della certa incostituzionalità per altri versi di una norma che impone un trattamento sanitario obbligatorio al di fuori di tutti i presupposti stabiliti dalla Corte costituzionale.

    Qualcuno dice: “ma non è un trattamento sanitario”. A parte l’elevatissima discutibilità di tale argomento (ho lavorato e discusso con molti medici, e praticamente a tutti s’accapponava la pelle, quando proponevo gli argomenti secondo i quali quel tipo di trattamento non sarebbe “sanitario”), ricordo che l’art.32, 2° co., Cost. sancisce la rifiutabilità dei trattamenti sanitari in genere, non solo di quelli terapeutici-curativi. Ma ricordo, soprattutto, che IL DIRITTO DI RIFIUTARE INTERVENTI INVASIVI SUL CORPO è sancito, come inviolabile, prima di tutto dall’art.13 Cost. (libertà personale), tanto che la Corte costituzionale ha sempre letto l’art.32, 2° co., c.p. come ipotesi particolare dell’art.13 Cost..

    Vale a dire: non è che si possono rifiutare solo le cure, e tutto il resto lo dobbiamo subire!

    De iure condito, se costringo una persona dissenziente a nutrirsi o a bere realizzo una violenza privata; sarebbe ben curioso dubitare di questa qualificazione sostenendo che, poiché non si tratta d’una terapia, quel tipo di violenza deve essere tollerata…

    De iure condendo, si può forse ammettere la legittimità di una norma che legitimi la costrizione di persone coscienti e dissenzienti, per il loro supposto bene, che so io, a bere, mangiare, soffiarsi il naso, vestirsi in un certo modo, tagliarsi i capelli ecc.ecc., solo perché non si tratta di “trattamenti sanitari”? Lascio a voi la risposta, invitandovi ad immaginare le conseguenze pratiche e di principio di una eventuale risposta positiva…

    Da sempre ci poniamo il problema dei limiti di legittimità della sanzione penale applicata a chi abbia realizzato un reato; come potremmo ammettere la libera possibilità del legislatore di legittimare coercizioni sul corpo ai danni di chi non abbia realizzato alcun illecito? Il “dovere di prolungare la vita ad ogni costo” non ha fondamento costituzionale (la costituzione conosce il diritto alla vita, non il dovere di vivere), quindi non potrebbe giustificare in alcun modo gravi compressioni del diritto “inviolabile” alla libertà personale, quale quella insita nella alimentazione o idratazione coercitive.

  7. Raffaele Soddu ha detto:

    Ritengo che nella specie non si paventi una violazione del giudicato. Nel momento in cui sono intervenuti i provvedimenti giurisdizionali, infatti, non esisteva una legge che regolasse la materia. E, come in tutti i casi nei quali la situazione soggettiva (diritto o interesse legittimo) non si esaurisce uno actu ma si protrae nel tempo, la successione di norme fa sì che nel momento in cui interviene la nuova norma, la situazione giuridica deve essere da questa regolata. La sentenza passata in giudicato si riferiva ad una determinata situazione di fatto e di diritto.

  8. Cristina ha detto:

    “la alimentazione e la idratazione forzata non rientrano nella nozione di accanimento terapeutico.”

    Appunto…

Inserisci un commento