Il doppio pasticcio

di | 21 Marzo 2010 | 5 commenti Leggi

Nelle scorse settimane ero stato fortemente tentato di intervenire sulla tormentata vicenda giudiziaria relativa alla non ammissione della lista de “Il Popolo delle Libertà” alle elezioni regionali del Lazio, per i molteplici spunti che essa offre; tuttavia mi ero astenuto dal fare ciò, in attesa della sua conclusione, per un doveroso riguardo nei confronti della magistratura chiamata a dipanare la intricata matassa.

Ora che sono note le motivazioni della ordinanza del Consiglio di Stato, che ha posto la parola fine alla vicenda (almeno per ciò che concerne la fase cautelare; rimane invece ancora aperta la questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 29 del 2010 promossa dalla Regione Lazio, sulla quale si dovrà pronunciare, tra qualche mese, il Giudice delle leggi), è possibile formulare qualche breve considerazione.

E’ bene dire subito che la vicenda, a mio sommesso avviso, essendo nata male (col “pasticcio” combinato dal delegato alla presentazione della lista del PDL, il quale in prima battuta ha dichiarato di essersi allontanato dal “recinto” previsto per i presentatori delle liste per mangiare un panino, salvo poi rettificare tale dichiarazione, sostenendo che si era dovuto allontanare a causa dell’aggressione di un delegato di altra formazione politica), non poteva finire bene.

La stessa ordinanza del Consiglio di Stato di ieri, se da un lato convince (nella parte in cui afferma che le disposizioni contenute nel D.L. n. 29 del 2010 si applicano anche nel Lazio, per la loro natura dichiaratamente interpretativa, superando la ordinanza del T.A.R. Lazio, che aveva disapplicato il D.L. stesso, ritenendo che il rinvio previsto dalla legge regionale alle norme statali sarebbe statico e non dinamico, senza peraltro sollevare apposita q.l.c.), dall’altro non sembra del tutto persuasiva nella parte in cui afferma che, anche a seguito del D.L., occorre fornire la prova che la documentazione era completa entro l’orario previsto per la presentazione. Una prova questa che, non del tutto infondatamente, i difensori del PDL avevano ritenuto come una sorta di “probatio diabolica”, non essendo possibile accertare a distanza di diverse settimane la completezza della documentazione entro il suddetto orario.

Sotto questo profilo la ordinanza del CdS, soprattutto, cade in una singolare contraddizione, dato che, da un lato, afferma che il D.L. n. 29 del 2010 è applicabile anche nella Regione Lazio e, dall’altro, finisce per trascurare che lo stesso D.L. prevedeva (sia pure in via eccezionale, all’art. 1, comma 4, ultimo periodo) la ripresentazione della documentazione entro il giorno 8 marzo 2010, con ciò implicitamente considerando irrilevante l’accertamento se la documentazione era o meno completa entro la data fissata in via ordinaria.

Nel caso infatti di riapertura dei termini per la presentazione della documentazione, deve ritenersi, per principio generale, che la completezza della documentazione stessa vada verificata con riferimento alla nuova data fissata per la presentazione e non già a quella originariamente prevista.

Commento altrettanto non favorevole, per i motivi sinteticamente esposti nell’ordinanza del CdS, meritano le (due) ordinanze del TAR Lazio che avevano respinto la domanda di ammissione della predetta lista elettorale, ritenendo non applicabili le norme del D.L. – dichiaratamente interpretative e dirette proprio a risolvere la situazione determinatasi nel Lazio (oltre che quella della Lombardia, che tuttavia si era risolta indipendentemente dal D.L.) – alla Regione Lazio.

Vero è che il giudice di merito, per giurisprudenza costante, non è vincolato dalla qualificazione data dal legislatore ad una norma, ma in ogni caso, come esattamente rilevato dal CdS, in presenza di dubbi circa l’applicabilità o meno delle norme contenute nel D.L. occorreva sollevare apposita q.l.c.; si è invece preferita la strada della “disapplicazione” di un decreto legge, che è una strada oltremodo pericolosa per la certezza del diritto.

Se comunque si leggono attentamente le motivazioni delle ordinanze del T.A.R. Lazio con le quali è stato respinta la domanda cautelare avanzata dal Popolo delle Libertà, ci si accorge facilmente che il “pasticcio” creato a seguito della non ammissione di detta lista, è frutto di un “pasticcio” ancora più grande e risalente nel tempo: quello della riforma del Titolo V della Costituzione.

Questa riforma, infatti, approvata in tutta fretta e senza adeguata meditazione, alla fine della legislatura allo scopo (elettoralistico) di contrastare le istanze autonomiste sempre più spinte della Lega Nord, ha finito per prevedere l’attribuzione di una potestà legislativa in molte materie alle Regioni a statuto ordinario, senza peraltro stabilire gli esatti confini di tale materie; il che ha creato un notevole contenzioso tra Stato e Regioni ed ha costretto la Corte costituzionale a ripetuti interventi.

Si è verificato insomma un fenomeno analogo a quello al quale si è assistito allorchè il legislatore delegato, con gli artt. 33 e 34 del D.L.vo n. 80/1998, ha ampliato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle “materie” dei servizi pubblici e dell’urbanistica ed edilizia (che ricomprendeva anche l’ambiente e le espropriazioni per p.u.), senza preoccuparsi di definire la nozione di servizio pubblico (nozione che è stata successivamente dedotta, non senza incertezze, dalla giurisprudenza attraverso l’elencazione contenuta nell’art. 33) o dando (con l’art. 34) una definizione di edilizia ed urbanistica talmente lata, da essere praticamente inutile.

Così è pure avvenuto con la riforma del Titolo V, dato che l’attribuzione di nuove materie alla competenza legislativa delle Regioni non è stata accompagnata da una adeguata definizione delle materie stesse; il problema si è aggravato perché, nel caso della riforma del Titolo V, le materie non sono state attribuite alla competenza “esclusiva” di un organo piuttosto che un altro, ma alla competenza “concorrente” delle Regioni.

Il che ha costretto, come già detto, la Corte costituzionale ad un superlavoro di definizione dei confini che si è rivelato tutt’altro che agevole, specie nel caso di materie complesse (come quella dell’ambiente) nel quale le competenze si intersecano tra di loro in un groviglio spesso inestricabile.

L’attribuzione di una potestà legislativa anche alle Regioni in materia elettorale si è rivelata particolarmente perniciosa, dato che vi è il serio pericolo di un diritto elettorale “a macchia di leopardo”, nel quale principi e regole applicabili in alcune Regioni, non sono applicabili anche in altre.

E’ stato merito della Corte costituzionale ricordare di recente che l’esercizio della potestà legislativa delle Regioni e addirittura la loro potestà statutaria deve svolgersi nel rispetto dei principi fissati uniformemente dal legislatore nazionale.

Significativa al riguardo è la recente sentenza della Corte 26 febbraio 2010, n. 68, con la quale è stato affermato (sia pure per ciò che concerne la potestà statutaria delle Regioni; ma il principio è ancor più valevole anche per la potestà legislativa in materia elettorale) che: “A seguito della legge costituzionale 22 novembre 1999 n. 1, che ha attribuito allo statuto ordinario la definizione della forma di governo e l’enunciazione dei princìpi fondamentali di organizzazione e funzionamento della Regione, in armonia con la Costituzione (art. 123, primo comma, Cost.), demandando allo stesso legislatore regionale, sia pure nel rispetto dei princìpi fondamentali fissati con legge della Repubblica, in particolare «la durata degli organi elettivi» (art. 122, primo comma, Cost.), deve ritenersi che la disciplina della eventuale prorogatio degli organi elettivi regionali dopo la loro scadenza o scioglimento o dimissioni, e degli eventuali limiti dell’attività degli organi prorogati, sia oggi fondamentalmente di competenza dello statuto della Regione, ai sensi del nuovo articolo 123, come parte della disciplina della forma di governo regionale. Nel disciplinare questo profilo, tuttavia, gli statuti debbono essere in armonia con i precetti e con i principi tutti ricavabili dalla Costituzione, ai sensi dell’art. 123, primo comma, della Costituzione”.

Nel caso affrontato dal Giudice delle leggi, la Regione Abruzzo, approfittando del fatto che lo statuto prevedeva genericamente che «in caso di scioglimento anticipato e di scadenza della legislatura, il Consiglio e l’Esecutivo regionale sono prorogati sino alla proclamazione degli eletti nelle nuove elezioni, indette entro tre mesi dal Presidente della Giunta, secondo le modalità definite dalla legge elettorale», aveva ritenuto di approvare – in contrasto con i principi generali in materia di prorogatio – delle leggi comportanti nuove spese (e quindi eccedenti gli atti di ordinaria amministrazione) dopo lo scioglimento del Consiglio regionale; la Corte ha ritenuto illegittime tali leggi, in quanto contrastanti con i principi fissati dallo Stato in materia di prorogatio.

Vi sono dei casi in cui la Corte tuttavia non può intervenire: ad esempio, recentemente è stata depositata una ordinanza (12 marzo 2010, n. 96) relativa alla q.l.c. dell’art. 2, comma 1, lettera m), della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 29 luglio 2004, n. 21, nella parte in cui prevede, quale causa di ineleggibilità, l’avere rivestito il ruolo di legale rappresentante o di dirigente di società partecipata dalla Regione, senza nel contempo prevedere l’ulteriore requisito del carattere maggioritario o di controllo della partecipazione regionale; tale q.l.c. è stata tuttavia dichiarata manifestamente inammissibile sotto il profilo che la q.l.c. “finisce sostanzialmente per demandare alla Corte, senza alcun nesso di subordinazione, la definizione di una alternativa irrisolta da parte del giudice a quo”.

Altrettanto emblematico è il caso delle c.d. “preferenze di genere” previste nella Regione Campiania, ritenute legittime dalla Corte con sentenza 14 gennaio 2010 n. 4.

Per chi già non lo sapesse con la legge della Regione Campania 27 marzo 2009, n. 4, per la prima volta nell’ordinamento italiano ed ovviamente per la sola Regione Campania, è stato previsto che, per l’elezione dei Consiglieri regionali, l’elettore può esprimere uno o due voti di preferenza e che, nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di genere maschile ed una un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza.

Ho già avuto modo di esprimere il mio pensiero in merito in un precedente intervento nel weblog, al quale faccio pertanto rinvio.

Come ho cercato di fin qui di dimostrare, quindi, i pasticci (come i guai) non vengono mai da soli; la morale è solo una: prima di metter mano alla Costituzione, occorre pensarci almeno tre volte, molto più di quanto impone la stessa Carta costituzionale imponendo, per le leggi di rango costituzionale, la doppia lettura dei due rami del Parlamento.

Giovanni Virga, 21.03.2010.

Print Friendly, PDF & Email

Category: Diritto pubblico

Commenti (5)

Trackback URL | Comments RSS Feed

  1. alvaro Micheli ha detto:

    Chiar.mo Prof. Virga, leggo sempre con la massima attenzione tutti suoi acuti interventi. Si capisce chiaramente che il suo “cuore” batte a destra ed è del tutto legittimo anche perché ciò non toglie pregio alle sue acute osservazioni.
    Purtroppo questo suo ultimo intervento supera ogni limite precedente.
    E’ evidente che siamo in presenza di clamorosi pasticci.
    Condivido che alcune argomentazioni degli organi giurisdizionali non sono proprio cristalline dal punto di vista logico, oltre che giuridico, ma andrebbe anche riconosciuto, a scusante di qualche menda, che la materia prima fornita dal legislatore è molto scadente e che uno dei vertici delle istituzioni sta squassando l’intero sistema. Condivido pure che la riforma costituzionale del 2001 fu frutto di una scelta affrettata e di stampo chiaramente elettoralistico (ma perché non sollevare allora anche qualche critica al c.d. “federalismo fiscale” che si appresta a “completare l’opera”?) e se ne può dire tutto il male possibile. Ma che in un intervento che si occupa del c.d. “caso Lazio”, si limiti a dare un simpatico (quanto inevitabile) “buffetto” a quel discolo “delegato alla presentazione della lista dal PDL “, concentrando tutte le sue critiche sulle contraddizioni della giurisprudenza, (frettolosamente) chiamata a giudicare di una materia “incandescente” e malcerta, e soprattutto contro la riforma del titolo V della Costituzione, senza spendere una parola per quella autentica “oscenità” giuridica costituita dal D.L. 29/2010, mi pare francamente troppo.
    Lasciamo perdere tutto il resto: le questioni di principio e quelle di legittimità costituzionale. Prendiamo solo l’art. 1, comma 1, del D.L.. Vi leggiamo: “Il primo comma dell’articolo 9 della legge 17 febbraio 1968, n. 108, si interpreta nel senso che il rispetto dei termini orari di presentazione delle liste si considera assolto quando, entro gli stessi, i delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritta documentazione, abbiano fatto ingresso nei locali del Tribunale. La presenza entro il termine di legge nei locali del Tribunale dei delegati può essere provata con ogni mezzo idoneo.”. C’è stato mai prof. Virga, “nei locali del Tribunale” nel giorno in cui si presentano le liste? Se anche non vi fosse mai stato, credo che non faccia difficoltà ad immaginare il clima di concitazione, l’affollamento e sin’anche la ressa crescente che vi si verifica (sono presenti i delegati delle varie liste – pronti a sollevare contestazioni e talora anche a venire alle mani- ma anche curiosi, giornalisti, reporter, candidati e varia umanità). In un contesto siffatto che regola è quella che è scritta nel comma appena citato?
    E’ sufficiente stare all’interno dei locali “muniti della prescritta documentazione” (e chi lo dice?) ma soprattutto posso fornirne prova di ciò con ogni mezzo! La parola di ogni mio sodale che dice di avermi visto ad una certa ora presente in luogo è sufficiente a “fare diritto”…. Ma essere entrato nei locali è un termine a quo delle operazioni di presentazione. L’essenziale termine ad quem, in questo modo non c’è più. Il momento della effettiva consegna della “prescritta documentazione” scompare semplicemente dalla previsione normativa. Il delegato può fare melina, attendere, telefonare, rivedere, rileggere, controllare (forse anche integrare e correggere!!!)… L’importante che stia dentro l’area magica alle ore 12,00; quel che succede dopo diventa incerto e nebuloso. Pare quasi non avere rilevanza…. E’ una follia autentica. Possibile che le sia sfuggito questo fatto? E poi questa regola vale solo per le elezioni regionali (regolate dalla L. 108/1968). E per quelle provinciale e comunali, le cui regole di presentazione restano disciplinate dal DPR 570/1960? E per quelle del Parlamento (ved. per la Camera l’art. 15 il TU del 1957; per il Senato l’art. 8 del TU 533/1993) cosa accade? Abbiamo un regime speciale solo per le Regioni?
    E poi se il DL 29/2010, per opportunistiche ragioni di parte (come pare vada emergendo a seguito della riammissione della lista di Sgarbi) non viene neppure convertito in legge che succede? Un pasticcio all’ennesima? Chiar.mo Prof. Virga, mi pare che questa volta si sia concentrato troppo sulle “pagliuzze” e poco sulla “trave”…. Sarà per la prossima volta.

  2. Giovanni Virga ha detto:

    Gentile lettore,

    rispondo molto brevemente.

    Lei inizia il Suo intervento dicendo di avere letto sempre attentamente quello che scrivo e che il mio cuore batterebbe a destra.

    Entrambe queste affermazioni non sono esatte. Se avesse davvero letto attentamente quanto ho scritto in questo weblog in precedenza, si sarebbe accorto che ho, ad esempio, aspramente criticato l’abolizione del voto di preferenza nelle elezioni politiche, il che ha consentito il sistema delle “liste bloccate”, decise dai partiti, con la conseguenza che sono divenuti parlamentari personaggi assolutamente sconosciuti o comunque privi delle necessarie qualità o di un minimo di competenza e spessore.

    Il che comprova che il mio cuore non batte affatto a destra, come Lei sostiene, atteso che tale sistema è stato fortemente voluto proprio da Berlusconi, il quale, in tal modo, ha avuto la possibilità di scegliere a propria discrezione chi debba accedere ad un seggio parlamentare e di consolidare lo stuolo degli “yes man” che gli sta intorno. Il sistema tuttavia, col tempo, gli si ritorcerà contro: i grandi uomini sono infatti ricordati per la traccia che hanno lasciato. Ma che traccia può segnare un uomo che lascerà in eredità persone che (tranne Tremonti e pochissimi altri, tipo Martino, che non a caso è stato emarginato) sono prive di qualità e spessore?

    Purtroppo in Italia l’atmosfera è così politicizzata che si pensa subito, se si esprimono delle opinioni, che esse siano frutto di una appartenenza, piuttosto che di una convinzione personale.

    Non ho parlato del D.L. n. 29, e dei notevoli dubbi che lo stesso suscita, per gli stessi motivi per i quali non avevo parlato prima delle ordinanze cautelari: perchè su di esso si dovrà esprimere la Corte Costituzionale tra qualche mese.

    Per quanto riguarda il federalismo fiscale, ad esso chiaramente mi riferivo quando, in conclusione dell’intervento, ho detto che prima di modificare la Costituzione, occorre pensarci almeno tre volte.

    Il pasticcio della riforma del Titolo V è stato già fatto, quello delle preannunciate riforme costituzionali forse si può evitare.

    Cordiali saluti

    G.V.

    P.S.: Lei mi chiede se sono mai stato in Tribunale in occasione della presentazione delle liste. Confesso che, pur essendo stato più volte in Tribunale, non ho mai presentato una lista od accompagnato i presentatori delle liste (non svolgendo alcuna attività politica).

    Tuttavia ritengo che in materia di presentazione delle liste qualche (generale ed uniforme) regolamentazione vada prevista: ad esempio, si è a lungo parlato della mancanza del delegato del PDL nel “recinto” che era stato indicato. Ma quale norma prevede questo “recinto”?

    Più conducente sarebbe prevedere, come fanno molti uffici in queste occasione per mera prassi, di identificare coloro che attendono di presentare le liste, annotando gli estremi dei documenti di identificazione, lasciando i recinti ai buoi ed ai cavalli.

  3. Daniele Zaccaria ha detto:

    Ineccepibile la critica alla revisione del Titolo V della Costituzione, a dimostrazione che l’uso contingente ed elettoralistico delle riforme crea più danni che benefici.
    Trovo invece non condivisibile la critica mossa al Consiglio di Stato. Francamente non leggo alcuna contraddizione nella pronuncia dei giudici di Palazzo Spada: il comma 4, secondo periodo dell’art. 1, stabilisce che la riapertura dei termini vale per “i delegati che si siano trovati nelle condizioni di cui al comma 1”. Ed è il comma 1 che si preoccupa di riaffermare come sia indispensabile che i delegati abbiano fatto ingresso “muniti della prescritta documentazione”. Non capisco come il prof. Virga possa considerare implicitamente irrilevante la completezza della documentazione quando lo stesso decreto ne conferma esplicitamente l’indispensabilità.

  4. vittorio ha detto:

    Condivido perfettamente le considerazioni svolte dal Prof. Virga. del quale ho sempre apprezzato la lucidità e la grande saggezza

  5. Giovanni Virga ha detto:

    Rispondo brevemente al messaggio che chiede come io possa avere considerato irrilevante la completezza della documentazione alla data originariamente prevista per la presentazione delle liste.

    Il fatto è che io interpreto la norma che ha riaperto i termini per la presentazione delle liste, prevedendo per la consegna della relativa documentazione la data dell’8 marzo, appunto come una vera e propria norma di riapertura di termini; pertanto, al di là di ogni considerazione circa la sua formulazione (invero non perspicua), si applica il principio secondo cui – nel caso di riapertura dei termini – la completezza della documentazione va verificata con riferimento alla nuova data, e non già a quella originariamente prevista. Altrimenti che riapertura di termini è ?

    Rimangono al fondo varie considerazioni (che sarebbe troppo lungo svolgere) circa l’ambiguità delle disposizioni contenute nel D.L. n. 29 e, più in generale, circa l’incapacità dei vari consiglieri giuridici di cui dispone il Governo di risolvere in modo efficace le questioni che si pongono (un esempio evidente di tale incapacità è rappresentato, del resto, dal c.d. lodo Alfano, “affondato” senza pietà dalla Corte costituzionale, anche se in quel caso vi era l’attenuante dell’ambiguità della precedente pronuncia del Giudice delle leggi sull’analogo “lodo Schifani”, che sembrava non richiedere in materia di sospensione dei processi una legge di rango costituzionale).

    Cordiali saluti

    G.V.

Inserisci un commento