Dalla dittatura della maggioranza alla dittatura dell’emergenza
Fin dai tempi di A. de Tocqueville, che per primo segnalò la questione (in “La democrazia in America”, Torino 1968, riportato anche in appendice al volume “La dittatura della maggioranza”, a cura di P. Cecconi, Milano 2008) si è posto il problema della compatibilità del fenomeno della c.d. “dittatura della maggioranza” con il regolare funzionamento delle democrazie rappresentative.
Con l’espressione “dittatura della maggioranza” si intende fare riferimento al pericolo che la maggioranza degli eletti eserciti una vera e propria “dittatura” nei confronti delle minoranze le quali, in tal modo, verrebbero sempre più marginalizzate.
Il pericolo, come segnalò lo stesso Tocqueville, è temperato dal fatto che i partiti politici non sono del tutto monolitici, ma rappresentano diversi strati della società e finiscono quindi per avere degli interessi diversi. Inoltre, anche in un sistema di bipartitismo imperfetto, come quello italiano, la maggioranza è costituita da partiti in coalizione, i quali sono rappresentativi a loro volta di interessi differenti.
Tuttavia il pericolo è rimasto e, nel corso della corrente legislatura, è stato reso evidente dal sempre più frequente ricorso a questioni di fiducia poste dalla maggioranza, che finivano per “blindare” determinati provvedimenti legislativi, molto spesso costituiti da decreti legge emessi dal Governo.
Ma in questa fase della legislatura, dopo le annunciate dimissioni del Governo Berlusconi, si corre il pericolo di passare da una “dittatura della maggioranza” alla “dittatura dell’emergenza”, per effetto della quale il Parlamento è tenuto a votare, a scatola chiusa, una serie di provvedimenti imposti dall’esterno (v. in particolare la lettera del Governatore della Banca europea dello scorso agosto, la quale non si limita ad un generico invito ad adottare misure volte a ridurre la spesa pubblica ed a rilanciare l’economia, ma elenca una serie di provvedimenti concreti che il nostro Paese è tenuto ad adottare per evitare il pericolo del default).
Non vi è dubbio che, quando la casa brucia, tutti debbono concorrere a spegnere il fuoco. Ma è dubbio se le operazioni di spegnimento possano essere eterodirette, da organi non solo stranieri ma che, essendo organi tecnici, non sono investiti da alcuna rappresentitività popolare.
Alla luce di tali considerazioni generali va giudicato il recente maxiemendamento del Governo alla legge di stabilità.
Alcune norme del maxiemendamento, sia pur suggerite dalla Banca centrale (come quelle riguardanti l’elevazione dell’età pensionabile a 67 anni, ma solo a partire dal 2025) non sono affatto innovative, essendo già previste da precedenti provvedimenti legislativi. Onde è prevedibile che esse facciano ulteriormente irritare il mercati finanziari, i quali mal tollerano aggiramenti o, peggio, prese in giro.
Di contro, nel campo pensionistico non è avuto il coraggio di varare due riforme che darebbero il senso di volere moralizzare realmente il settore e cioè:
a) prevede un tetto massimo per i trattamenti pensionistici in atto erogati, che, come risulta da recenti libri (v. il libro di M. Giordano, Sanguisughe – Le pensioni d’oro che ci prosciugano le tasche, Mondadori ed., 2011; ma v. anche da ult. W. Passerini e I. Marino, Senza pensioni. Tutto quello che dovete sapere sul vostro futuro e che nessuno osa raccontarvi, Chiarelettere ed., 2011), per alcuni fortunati, hanno importi mensili spropositati ed inimmaginabili in altri Paesi; prevedere un tetto massimo, ad es. di 3.000 euro mensili, non ridurrebbe certo in povertà questi ricchi pensionati (tra i quali rientra Giuliano Amato, indicato in questi giorni come possibile presidente del Consiglio di un Governo tecnico e che è passato alla storia per la tentata rapina ai danni dei conti correnti bancari) e finirebbe per rendere possibile una riduzione degli oneri contributivi che tutti coloro che assumono nuovo personale sono tenuti a corrispondere;
b) interrompere l’erogazione delle baby pensioni, fino al raggiungimento dell’età pensionabile prevista per la generalità dei cittadini; è infatti assurdo che vi siano persone che fin da giovane età (ne conosco un paio che, come la moglie del Ministro Bossi, fin dall’età di 39 anni percepiscono una congrua pensione, superiore addirittura ad uno stipendio medio) gravano bellamente sul sistema pensionistico e, nel contempo, essendo appunto giovani, arrotondano le loro “rendite” pensionistiche con lavori in nero, alimentando in tal modo il sommerso; la sospensione del trattamento pensionistico erogato a costoro li porrebbe nella necessità di emergere dal lavoro nero e comunque di trovarsi una regolare occupazione, così come sono costretti a fare tanti nostri giovani.
Prima di proporre nuove imposte (come ad es. una imposta patrimoniale, che si andrebbe ad aggiungere alle già tante imposte e che finirebbe per affossare definitivamente l’economia) occorre ridurre l’elefantica spesa pubblica la quale, com’è noto, grazie anche alle storture del sistema pensionistico, finisce per assorbire oltre la metà del prodotto interno lordo italiano.
Altre norme contenute nel maxiemendamento suscitano del pari perplessità; ad esempio, è prevista la revisione degli ordini professionali entro 12 mesi (senza però parlare della loro soppressione) o la riduzione in via pattizia delle tariffe professionali (senza considerare che la passata abolizione dei minimi professionali prevista dalla lenzuolata dell’allora Ministro Bersani ha avuto effetti disastrosi sui piccoli e medi professionisti).
Particolarmente pernicioso è poi l’ulteriore innalzamento del contributo unificato atti giudiziari: l’ultimo articolo del maxiemendamento prevede infatti una maggiorazione del 50 per cento per l’appello ed addirittura il raddoppio del contributo per i giudizi in Cassazione, nonchè l’estensione a questi ultimi giudizi del meccanismo già tristemente noto a coloro che frequentano il foro amministrativo della perenzione straordinaria dei ricorsi che si realizza ove la parte personalmente non firmi una istanza con la quale dichiara di avere ancora interesse alla definizione della lite.
La giustizia, intesa soprattutto come difesa delle parti più deboli, come scritto tante volte, non viene certo migliorata prevedendo che le controversie siano sempre più costose (con ulteriori maggiorazioni del contributo unificato) e che sia più difficile ottenere la loro definizione (con la presentazione di istanze che attestano la persistenza dell’interesse).
Insomma, leggendo il famigerato maxiemendamento presentato, che doveva essere una sorta di “canto del cigno” di questo Governo, non si scorgono le tanto preannunciate misure per il rilancio dell’economia ma si rinvengono invece, soprattutto per ciò che concerne il settore giudiziario, ulteriori balzelli ed adempimenti burocratici che ingolferanno ulteriormente le cancellerie.
Il tutto verrà approvato a tamburo battente per effetto di quella che abbiamo chiamato la “dittatura dell’emergenza”, senza alcuna seria riflessione circa l’efficacia delle misure proposte. Ma il giudizio su tali nuove misure, come accade negli ultimi tempi, la daranno i mercati, i quali, ancora oggi, nonostante che sia stato finalmente reso noto il maximendamento, non a caso sono ancora molto depressi.
L’unica cosa consolante è che in Italia, storicamente, qualche riforma seria si è fatta solo sotto la spinta dell’emergenza; quest’ultima anzi, a ben vedere, sarà l’unico serio alleato sul quale potrà contare il preannunciato Governo Monti (-Draghi).
Giovanni Virga, 10.11.2011
Category: Società
Illustre Professore,
concordo pienamente con la Sua analisi. Mi permetto di aggiungere una piccola osservazione.
Anziché innalzare, per l’ennesima volta, il contributo unificato (misura che evidentemente incide, fino a comprometterlo in via di fatto, sul diritto costituzionale di agire in giudizio), sarebbe necessario ripensare l’intera geografia giudiziaria del nostro Paese, accorpando e razionalizzando gli uffici esistenti. Penso non soltanto alla giustizia ordinaria, ma anche a quella amministrativa: ad es., abolendo le sedi staccate dei TAR.
Sempre in tema di giustizia amministrativa, perché non stabilire che, per talune categorie di controversie (ad es., quelle in materia di accesso), il TAR giudichi in composizione monocratica? Nel nostro Paese un solo giudice (il GIP) può privare della libertà una persona, mentre a stabilire se l’amministrazione debba o meno concedere l’accesso a determinati documenti in suo possesso è un collegio di tre giudici. Non è alquanto irrazionale?
Andrebbero poi aboliti tout court alcuni organi (anche di rilievo costituzionale) totalmente inutili, come il CNEL (che serve solo a collocare politici caduti in disgrazia, sindacalisti ammanicati col potere e altri abitanti del sottobosco politico).
Infine l’Università. Personalmente sono da tempo dell’idea che andrebbe privatizzata. Questo porrebbe fine agli squallidi giochi di potere e di lottizzazione varia che la ingabbiano (e che non hanno niente a che vedere col merito), liberando consistenti risorse pubbliche.
M.