Notazioni a margine del recente disegno di legge anti-corruzione
In Irlanda viene spesso usata una espressione augurale molto efficace e colorita, che così recita: “May you be in heaven a full half-hour before the devil knows you’re dead” (Ti auguro di arrivare in paradiso mezz’ora prima che il diavolo sappia che sei morto).
Con tale espressione, che è stata pure utilizzata, anche se in forma sincopata, dal compianto regista Sidney Lumet per il titolo del suo ultimo film (chiamato appunto, nella versione originale, “Before the devil knows you’re dead”, distribuito in Italia con il più banale titolo di “Onora il padre e la madre”), si intende esprimere il concetto secondo cui, essendo tutti noi dei peccatori, è preferibile arrivare in paradiso qualche tempo prima che il diavolo si accorga che siamo defunti.
Tuttavia, anche tra i peccatori ci sono delle differenze e temo che per i grandi peccatori l’augurio di arrivare mezz’ora prima in paradiso comunque non funzioni, dato che per essi il diavolo è già all’erta.
In ogni caso – dico questo forse per via della mia deformazione professionale – non penso che sia una buona tecnica difensiva dire che siamo tutti peccatori per essere assolti, come hanno tentare di fare alcuni personaggi pubblici negli ultimi tempi.
Il riferimento è, in primo luogo, al consigliere regionale del Lazio Fiorito, il quale si è cercato di giustificare – forse su suggerimento del suo difensore Prof. Taormina – affermando ripetutamente durante le sue varie esternazioni televisive, che tutti i consiglieri regionali del Lazio arrotondavano l’indennità di carica, attingendo liberamente dai fondi per il finanziamento dei gruppi consiliari; ma vedi anche il Presidente dell’ALER di Lecco Antonio Piazza il quale, dopo essere stato ripreso dalle telecamere mentre tagliava le ruote dell’auto di un disabile, ha cercato di giustificarsi dicendo che tra gli esponenti politici c’è chi fa di peggio.
Del resto l’inefficacia dell’argomento “siamo tutti peccatori” era già stata dimostrata in modo evidente oltre vent’anni fa, quando Bettino Craxi, incriminato per finanziamento illecito dei partiti, andò alla Camera dei deputati per dire che tutti i partiti di allora avevano goduto, in misura maggiore o minore, del finanziamento illecito. Com’è noto, dopo quella memorabile seduta della Camera, Craxi fu costretto, per vie traverse, a riparare ad Hammamet.
Molto meglio usare le vecchie ma ancora insuperate “graduazioni difensive” che insegnavano i gesuiti, secondo i quali la prima linea difensiva è quella di “negare semper”, anche nel caso in cui la situazione sia di tutta evidenza (così come fa, in un famoso sketch, anche se ovviamente in forma paradossale, il marito che è sorpreso dalla moglie a letto con l’amante, il quale nega l’evidenza, facendo finta che nel letto non ci sia nessuno; nel frattempo fa rivestire velocemente l’amante e la manda via, lasciando la moglie nel dubbio di aver avuto una temporanea allucinazione).
Solo quando non sia possibile negare (o, meglio, dopo aver tentato di negare), secondo le richiamate “graduazioni difensive”, è necessario “distinguere” (e cioè, pur ammettendo in parte l’accaduto, occorre introdurre argomenti di distinzione o di giustificazione).
In terzo luogo, quando non è possibile negare e nemmeno distinguere, è conveniente trincerarsi dietro un incrollabile mutismo, avvalendosi della facoltà di non rispondere e lasciando agli altri l’onere di costruire per intero il castello accusatorio.
In ultimo (questo non lo dicono i gesuiti, ma lo aggiungo io; si tratta, per così dire, di una variante nostrana delle graduazioni difensive) è sufficiente affidarsi alla giustizia italiana, fingendosi pentito (approfittando così degli istituti premiali), accusando magari qualche personaggio più noto (e distogliendo così l’attenzione dei magistrati; v. ad es. il caso del figlio di Ciancimino, che ha tirato in ballo il c.d. “papello” che sarebbe stato prodotto in occasione della presunta trattativa Stato-mafia, per distogliere l’attenzione dalle indagini sul suo conto riguardanti il reato di riciclaggio) ed infine confidando nella lentezza del nostro arcaico sistema di giustizia e nella probabile prescrizione che spesso da esso deriva.
Per punire i “grandi peccatori” od i corrotti è quindi inutile inasprire le pene (come invece cerca di fare il recente disegno di legge “anti-corruzione”, un provvedimento che è ci è stato presentato quale misura addirittura salvifica del degrado morale al quale stiamo assistendo e che, secondo i suoi fautori, non appena entrato in vigore, farà d’incanto scomparire la corruzione in Italia), ma è sufficiente seguire l’insegnamento del Giudice Giovanni Falcone fino in fondo.
Quest’ultimo, come molti lettori ricorderanno, suggeriva di “inseguire i soldi” per sconfiggere i crimini ed in particolare per debellare la mafia. Inseguire i soldi non serve infatti solo ad individuare i colpevoli di gravi reati, ma anche a scoraggiare il loro compimento, evitando che gli autori dei reati, una volta liberati, e le loro famiglie possano godere dei relativi frutti.
In parole povere, rifacendomi a quanto ho già detto a proposito di Ciancimino junior, il quale, per le sue presunte rivelazioni, è addirittura divenuto una star televisiva: non me ne importa niente se finirà dietro le sbarre di un carcere per il reato di riciclaggio per qualche tempo. Mi importa invece che siano recuperate integralmente (con gli interessi e la rivalutazione monetaria) le ingenti somme che maneggia, frutto delle tangenti riscosse dal padre (è di questi giorni la notizia che sarebbe proprietario, sia pure per interposta persona, di una grossa società del valore di svariate centinaia di migliaia di euro a Bucarest). In tal modo si contribuirà anche ad abbattere l’imponente debito pubblico italiano che, com’è noto a tutti, è pure frutto di tante piccole e grandi ruberie. Quanto appena detto (inseguire i soldi) vale soprattutto per gli amministratori pubblici corrotti.
In un intervento di qualche anno addietro avevo già rilevato il fatto che questi ultimi hanno timore di due Procure: quelle della Repubblica e quelle della Corte dei Conti ed avevo aggiunto che, paradossalmente, hanno più paura delle seconde che delle prime. Molti amministratori, infatti, non temono più il carcere, il quale, salvo l’eventuale breve periodo di custodia cautelare, è – con tre gradi di giudizio e con la lentezza della giustizia italiana -, una eventualità remota e che è comunque è considerata una disgrazia meno grave della perdita del “malloppo”, di cui fruisce tutta la famiglia.
Piuttosto che inasprire le pene nei confronti dei corrotti e dei corruttori, ovvero prevedere nuove cause di incandidabilità (che, incidendo sul diritto di elettorato passivo e sul principio di presunzione di non colpevolezza, fino alla data della sentenza irrevocabile, sono di dubbia costituzionalità), occorrerebbe invece puntare sulle misure patrimoniali, rafforzando nel contempo i poteri di indagine e repressivi della Corte dei Conti nonchè delle Procure della Repubblica.
In particolare, si dovrebbero utilizzare gli istituti previsti dalla legge Rognoni-La Torre per i reati a carattere mafioso (sequestro e confisca dei beni che non trovano giustificazione nelle dichiarazioni dei redditi) anche per combattere i reati contro la pubblica amministrazione. Solo così, a mio sommesso avviso, la mala pianta della corruzione sarà seriamente estirpata, con grande beneficio non solo per la società civile, ma anche per l’erario pubblico.
Giovanni Virga, 7 ottobre 2012.
P.S.: dimenticavo di notare che l’attuale Governo, tramite il Ministro della giustizia, ha recentemente inserito nel ddl anticorruzione in atto all’esame del Parlamento alcuni emendamenti, tra i quali spicca, per la sua singolarità, quello dedicato ai magistrati in regime “fuori ruolo”, i quali, per effetto di tale regime, cumulano il non magro stipendio di magistrato (nonostante che non esercitino le relative funzioni) con le indennità varie previste per incarichi pubblici che ricoprono.
Prevede l’emendamento governativo che l’istituto dei “fuori ruolo” va confermato, ma che tuttavia va previsto per esso un periodo massimo di 10 anni; si aggiunge tuttavia che il periodo di servizio presso le Autorità indipendenti (è il caso, ad es., di Catricalà) non va computato nel predetto periodo decennale.
A parte il fatto che non si capisce quale relazione ci sia tra il ddl anticorruzione con il discutibile regime dei magistrati fuori ruolo, già censurato dallo scrivente e da pochissimi altri (quali la coraggiosa trasmissione “Report”; v. un articolo pubblicato in precedenza intitolato “Quis custodiet ipsos custodes?”), va notato che il Governo non ha affatto stabilito che il magistrato fuori ruolo non percepirà più lo stipendio per il quale non esercita le funzioni – come sarebbe stato logico, per dare a tutti il buon esempio, in questo periodo di profonda crisi economica – ma, nel confermare implicitamente l’istituto, ha previsto solo un limite abbastanza blando (10 anni, durante i quali il magistrato fuori ruolo continuerà a percepire un doppio compenso) ed una rilevante eccezione al suddetto limite, come quella della non computabilità del periodo di servizio prestato presso Autorità indipendenti.
Ma non era Berlusconi quello che, secondo alcuni, si faceva confezionare delle leggi ad personam?
L’obiettivo ultimo del ddl anticorruzione è quello di portare un minimo di moralità nella pubblica amministrazione. L’emendamento in questione, non mi sembra proprio in linea con questo giusto obiettivo.
Category: Giustizia